Fino ad ora l’applicazione è stata scaricata da appena l’8% della popolazione. Un flop che si spiega anche dall’incapacità di raggiungere le fasce di popolazione di fragili e quindi più a rischio. Come dimostra questa inchiesta
La povertà non è soltanto privazione, ma isolamento. Uno stato che persino nell’emergenza ha escluso senzatetto, rifugiati o persone sotto protezione dalla solidarietà nazionale, a cui ci siamo aggrappati con lo “State a casa”. Un appello impossibile per chi non ce l’ha, così le aspettative del Governo sull’App Immuni, dimenticando che il sistema taglia su una grossa fetta di popolazione, quella degli “invisibili”.
Per funzionare infatti, Immuni avrebbe dovuto essere utilizzata almeno dal 60% della popolazione italiana. A distanza di un mese dal lancio dell’app, sono circa 4 milioni le persone che lo hanno fatto (8 italiani su 100), ma per alcune è stata un’opportunità mancata.
Perché quando non si ha nemmeno un telefono, figuriamoci se di ultima generazione, è assurdo concepire esigenza l’installazione di un’App. La povertà è solo una delle “barriere umanitarie” di Immuni, considerando che è una misura preventiva che parla in italiano solo agli italiani, che smette di funzionare fuori dai confini nazionali e ignora quanto sia rischioso identificarsi per una persona sotto programmi di protezione internazionale.
Così uno degli effetti collaterali dell’isolamento sociale è che anche in un momento di estremo bisogno, le istituzioni hanno tenuto ancora più a distanza chi era già ai margini, rendendola più sola.
Immuni alla povertà
La povertà in Italia non è un tabù, ma un’altra forma di emergenza. Secondo l’Istat, oltre 50mila persone hanno richiesto assistenza di base nel 2019. Docce, cibo, un letto e un tetto sopra la testa. Numeri che compongono il tessuto nazionale e che, a causa della crisi economica, cresceranno rapidamente.
Si pensi che da marzo a maggio, i mesi più difficili della pandemia, la Caritas ha assistito quasi 450.000 persone, di cui il 61,6% italiane. Di queste il 34% sono “nuovi poveri”, cioè persone che hanno chiesto aiuto per la prima volta alla Caritas.
Le disposizioni igienico-sanitarie volute dal Governo, nell’ottica di impedire assembramenti, hanno esposto queste persone ad altri rischi però. «Diverse regioni non hanno tenuto conto dei senza fissi dimora, nell’emergenza sono stati ignorati, tant’è che diversi di loro sono rimasti senza servizi di prima necessità, bagni pubblici e mense», racconta Luca Fortunato, responsabile del progetto “Senza fissa dimora” per conto della Comunità Papa Giovanni XXIII. Se per la maggior parte della popolazione stare a casa era d’obbligo, per i senzatetto è stata una richiesta paradossale, perché privi o dediti al nomadismo.
Dopo mesi al freddo e in strada, molti senza fissa dimora lamentavamo di aver contratto il Covid-19 e sono stati accolti e aiutati in lockdown presso palestre, tensostrutture e aule scolastiche vuote, spostandosi ogni 14 giorni. La “prevenzione”, in tal senso, nasce prima di tutto dal dialogo con le persone e nella disponibilità ad aiutarle.
I volontari della Fondazione Papa Giovanni XXIII hanno perciò reagito all’assenza con la prossimità. <<Parlare con le persone, spiegare loro la situazione, è la migliore forma di prevenzione – prosegue racconta Luca Fortunato – Ciò non vuol dire ignorare le distanze, ma esserci e garantire alle persone aiuti, renderli immuni dalla disperazione, dalla solitudine, spiegando loro perché è necessario che si tutelino dai rischi della strada>>.
Oggi, con Immuni, si verifica la stessa inadeguatezza nelle risposte istituzionali.
«La maggior parte dei fratelli in strada non ha lo smartphone ma telefoni vecchi, senza traffico internet, che gli fornisce però la struttura presso cui sono ospitati o che li aiuta». Solo in Abruzzo sono state aiutate in questi mesi circa 180 persone alla settimana: il 95%-98% di loro non ha lo smartphone. «Immuni potrà essere efficace da un punto di vista tecnologico, ma il miglior modo per proteggere queste persone dal contagio è l’assistenzialismo dal vivo», racconta Fortunato.
Anche se l’app non include tutti, può essere allora un punto di partenza per fornire degli stimoli educativi nel contrasto dei contagi, riflessioni di tipo socio-economico, spronando a ricreare un monitoraggio diverso, inclusivo e con il supporto concreto delle persone.
È necessario però potenziare i servizi sul territorio, riconoscere l’importanza del Terzo Settore. «Se il Governo avesse messo dei telefoni di ultima generazione nelle mani di queste persone, di sicuro non lo avrebbero usato per scaricare l’app. Lo avrebbero rivenduto per sopravvivere», conclude Fortunato.
Immuni alle barriere linguistiche
C’è un’altra barriera insormontabile per usufruire dell’App Immuni, presente fin dai decreti emergenziali.
«Abbiamo dovuto tradurre le informazioni sanitarie dei decreti e renderle accessibili anche per le donne che aiutiamo», racconta Irene Ciambezi responsabile del servizio antitratta della Fondazione Giovanni Paolo XXIII.
Gran parte delle vittime di sfruttamento sessuale seguite dalla Fondazione sono nigeriane, in fase di integrazione e con una conoscenza scarsa della lingua. Non capire le norme igienico-sanitarie, in questo momento particolare, vuol dire limitarne l’applicabilità.
Ed è importante che le informazioni arrivino anche agli stranieri, considerando le diverse culture sanitarie. L’esempio lampante sono il vodoo e la magia nera, la tradizione religiosa nigeriana ha alla base infatti un’importanza spirituale che condiziona la vita dei credenti e ne influenza la salute, con lo stregone a dover espletare stati di malessere tramite “un pegno”, che può degenerare in maledizioni e costringere queste donne a cadere nel racket della prostituzione.
Solo arrivate in Europa, le vittime ricostruiscono un rapporto positivo con l’assistenza sanitaria, ma se non informate correttamente possono perpetrare però comportamenti sbagliati. «La maggior parte delle ragazze vittima di tratta o chi ne è uscita, era protetta da un trafficante o dalle madame – racconta Irene Ciambezi – se queste donne avevano malattie, anche le più blande, erano abituate ad andare direttamente in pronto soccorso». Entrando in comunità, è stato possibile invece mostrare il valore del sistema sanitario italiano e la figura del medico di base.
Ma come aiutare queste persone, come integrarle e permettere di collaborare nella Fase 2, se persino le istituzioni non si rivolgono a loro, non includendo altre lingue nelle misure emergenziali? È lo stesso problema che si verifica oggi con l’App Immuni, concepita solo ed esclusivamente in lingua italiana.
«Chi era in Italia da meno tempo ha avuto proprio bisogno di capire linguisticamente cosa stava succedendo in questi mesi. È stato molto difficile spiegare che il Covid-19 riguardava tutti, indipendentemente dall’etnia», spiega Ciambezi.
Nonostante le vittime di tratta siano oggi a conoscenza dell’esistenza e dell’utilità dell’App, dopo anni di controllo sulla loro vita, anche solo l’idea di potere essere rintracciate è una ferita aperta. «In questi anni abbiamo dovuto ricostruire un rapporto di fiducia con queste persone, che tutt’oggi si sentono controllate a causa del trauma della prostituzione».
Inoltre, in una cultura in cui è radicata la convinzione che la polizia sia corrotta e possa avvalersi sulle persone, come per quella nigeriana, è difficile credere nelle buone intenzioni di un’app governativa. Tra le altre motivazioni, molte di queste donne hanno poi patologie importanti, come epatite, HIV, TBC e l’idea di poter condividere il loro stato di salute, anche se non pubblicamente, le scoraggia da usare Immuni.
Senza contare che, tra le vittime di tratta e sfruttamento sessuale, molte ragazze dell’Est vorrebbero rientrare nel proprio paese e riconciliarsi con i propri figli, ma come fare se l’App perde efficacia fuori dai confini italiani e non può ricostruire uno storico con i cittadini di altri Paesi?
Indifferenti all’isolamento
Certamente la pandemia è stata per indigenti, bisognosi e chi ha usufruito della prima accoglienza un vuoto a perdere. Un isolamento che ha coinciso con solitudine e silenzio dalle istituzioni. Lo conferma anche Andrea Costa, coordinatore del Baobab Experience di Roma. «Le persone del centro hanno sentito un vero senso di abbandono durante questi mesi e si sono accorti di una città vuota – racconta – Non è stato detto loro nulla su quel che stava accadendo, nessuna informazione igienico-sanitaria dalle istituzioni. Siamo stati noi volontari a dover fornire i primi soccorsi, mascherina, guanti e amuchina».
Il Baobab, insieme a Medici per i diritti umani, Intersos e Sanità di Frontiera e i loro medici, si sono attrezzati per fare diversi screen sanitari ai ragazzi e richiedenti asilo, trovandosi spesso a colmare un vuoto umanitario senza precedenti. «A inizio pandemia contavano 100 persone, a fine pandemia 250, molte provenivano dal Banco alimentare e dalle mense chiuse».
Anche in questo caso, emerge la necessità di un’informazione chiara, inclusiva e di una mediazione culturale: più di un ospite era convinto che il Covid-19 fosse una patologia che colpisse solo i bianchi, che non toccasse altre etnie, compromettendo l’adesione alle norme.
Anche perché il fatto che l’App Immuni possa proteggere queste persone da una minaccia incombente, da un lato, è vissuta come una situazione infinitesimale rispetto ai pericoli che hanno vissuto tanti migranti in Libia, prima di arrivare in Italia. Un viaggio che per molti di loro, comunque, non termina in Italia, mettendo in discussione ancora una volta l’efficacia dell’App. «Per gran parte di queste persone il tracciamento si fermerebbe a Ventimiglia perché molti vogliono andare in Francia, Germania e Austria», conclude Andrea Costa.
Barriere culturali
Anche l’analfabetismo digitale gioca una sua parte di responsabilità nell’adesione a Immuni e nella sua promozione. Sapere il grado di rischio a cui è esposto chi vive ai margini della società è allora necessario per comprendere le ragioni del suo insuccesso, l’utilità di questo sistema e le ragioni dell’accoglienza.
Secondo l’Avv. Andrea Lisi, Presidente dell’Associazione Nazionale Operatori e Responsabili della Cultura Digitale, il rischio di Immuni non è tanto nell’app, ma nel «Sistema Paese che dovrebbe accogliere la tecnologia con maggiore consapevolezza sui pro e contro a cui si sottopone la popolazione».
Si pensi che solo pochi giorni fa la Corte Suprema francese ha confermato una sentenza di 50milioni di euro contro Google per violazioni nel trattamento dei dati, a ribadire come le Big Tech non siano ancora trasparenti sulle modalità di gestione.
«È come se lo Stato Italiano stesse spronando a usare una Ferrari su una stradina di campagna: i buoni propositi ci sono, ma la modalità con cui si usa il mezzo di trasporto può anche ritorcersi contro, se non ne conosciamo i limiti», conferma l’Avv. Lisi di ANORC.
Nel caso di Apple per esempio, a supporto degli Iphone, il sistema operativo richiede la sola esigenza tecnologica Bluetooth. Nel caso del sistema Google Android invece, spiega Andrea Lisi, «affinché l’app sia attiva e operativa è richiesta l’attivazione sia di Bluetooth sia Gps, che abilita teoricamente il tracciamento degli utenti».
Inoltre, è vero che i dati Gps non sono utilizzati direttamente da Immuni, ma è anche vero che il codice sorgente è open source, liberamente consultabile.
«Nel caso specifico di persone per esempio sotto copertura, programmi di protezione nazionale e internazionale, è molto probabile che attraverso la presenza combinata di Bluetooth e GPS attivi sul proprio smartphone, autorizzati dall’app Immuni, si possano almeno teoricamente ricostruire tutti i loro spostamenti se venisse fatta esplicita richiesta da governi, istituzioni o esperti informatici, esponendole a rischi e sottraendole dalla tutela», conclude l’Avv. Lisi.
Non sapremo mai se tutta l’architettura Google e Android dove poggia Immuni sarà a supporto di altre finalità nell’immagazzinamento dei dati. Quel che è certo è che l’app li raccoglie e che un paese che difficilmente ascolta gli ultimi in un momento di emergenza globale, ancor più difficilmente saprà proteggerli se in pericolo.