Paola Severini condurrà alle 18 su Raidue una striscia quotidiana, fra cronaca e storie, ricordando Ludwig Guttmann, ideatore dello sport per disabili.
“Toni pacati, non parleremo velocemente, per agevolare la traduzione in lingua dei segni e quella elettronica per ciechi. Attraverso gli atleti, racconteremo la vita di cinque milioni di famiglie alle prese con disabilità”
di Domenico Guarino
Paralimpiadi come banco di prova per il servizio pubblico. Come test per validare un diverso modo di fare informazione ed intrattenimento. Per raccontare la vita di tutti i giorni con professionalità e pacatezza. Dopo lo straordinario successo di ascolti per le Olimpiadi, che ha ridato lustro in particolare a Raidue, e al suo modo di presentare le competizioni sportive, l’appuntamento con i giochi per i diversamente abili diventa l’occasione per confermare questo approccio diverso ed inclusivo al modo di fare televisione.
Dal 25 agosto al 4 settembre, intorno alle 18 su Raidue ci sarà “O anche no, stravinco per la vita”, una striscia quotidiana curata da quel gruppo di ragazzi e professionisti che ha già animato il racconto sulla disabilità in Rai, a partire dalla felice intuizione di Carlo Freccero nel 2019. ‘Capa’ di tutto questo è Paola Severini Melograni, giornalista da sempre molto attenta ai temi del sociale.
Ci racconta questa nuova esperienza? Come nasce? Cosa farete? Che significato ha?
“Faremo un programma di dieci minuti, che nasce, voglio sottolinearlo perché non è scontato, dal lavoro di squadra: unendo diverse reti e diverse direzioni Rai: Rai per il sociale, Rai pubblica utilità, Rai sport, RadioRAi, Gr Parlamento che la mattina alle 11 riproporrà in formato audio la nostra trasmissione. Un fatto non scontato, di cui la RAI deve essere orgogliosa perché è il modo giusto di lavorare, mettendo insieme competenze e professionalità per crescere tutti insieme. In concreto, non avendo lo streaming delle gare perché i diritti sono stati acquisiti da Discovery, non possiamo far rivedere quello che accade. Allora si è strutturato un palinsesto che prevede una rubrica a cura dei colleghi di Raisport, che sarà un sommario di quanto accaduto nella giornata, con le notizie principali, le medaglie, le prestazioni dei nostri atleti, e poi arriviamo noi con una striscia quotidiana di 10 minuti incentrata sul racconto della storia delle paralimpiadi, partendo dalla vicenda dell’ideatore, il dottor Ludwig Guttmann, di cui parla il biografo italiano Roberto Ricciardi, generale dei Carabinieri “.
Chi è Guttmann? Perché la sua vicenda umana e professionale è così significativa?
“Guttmann è stato un uomo assolutamente straordinario. Neurologo di altissimo livello, specializzato nella cura delle lesioni spinali. Però, era ebreo e nonostante fosse tedesco e probabilmente il medico più famoso in tutta la Germania, dopo la Notte dei Cristalli, nel 1938, avendo intuito che nemmeno la sua scienza lo avrebbe salvato, dovette riparare in Inghilterra, con tutta la famiglia. E qui mise in atto una vera e propria rivoluzione che cambiò non solo l’approccio alla paraplegia, ma a tutta la disabilità”.
In che modo?
“Nel 1944, da direttore dell’ospedale di Stoke Mandeville nel Berkshire, decise che i soldati feriti in guerra, non avrebbero mai più dovuto incontrare né commiserazione né avversione, e si impegnò per trovare un approccio diverso alla cura. Sia fisica che psicologica. Si pensi che normalmente i paraplegici morivano dopo sei settimane a causa delle infezioni urinarie e delle piaghe da decubito. Guttman portò in quell’ospedale il metodo che aveva sperimentato in Germania, che consisteva nel muovere continuamente i pazienti, che non dovevano mai stare fermi nel letto, così da evitare le piaghe. Anche di notte, ogni due ore. E poi li motivava attraverso lo sport: alla disperazione, ai sedativi, lui preferì l’attività sportiva, l’aria fresca, i rapporti umani. Quello che faceva aveva un profondo senso morale, perché le persone che curava, ragazzi che la guerra aveva segnato per sempre, avevano perso le gambe ed erano state ferite combattendo contro il male assoluto del nazismo. E quindi per lui erano, come ebbe modo di dire, il ‘meglio dell’umanità’. Aveva insomma una doppia motivazione: quella medica e il fatto di voler dare una seconda chance a chi aveva lasciato le gambe nella guerra contro Hitler”.
Come fu accolta la sua rivoluzione?
“Non fu tutto rose e fiori, perché, come accade a tutti i rivoluzionari, le sue idee non erano capite, ma osteggiate, davano fastidio. Come accadde a Basaglia nella battaglia per la chiusura dei manicomi. Io ho lavorato con lui, e conosco le sue difficoltà nell’affrontare una situazione profondamente radicata. Quando si fa una rivoluzione la prime persone che ce l’hanno con noi sono le persone che ci stanno vicine. E questa è una cosa che vale anche per il modo di fare televisione, perché capovolgere delle logiche non è facile. Per questo voglio ringraziare chi ci ha sempre supportato e dato sostegno. A partire da Carlo Freccero che ha creduto in questo modo di raccontare la disabilità per arrivare al mio attuale direttore Ludovico di Meo che è un uomo coraggioso che ha puntato sul rinnovamento”.
Qual è il vostro approccio ai temi sociali ed in particolare alla disabilità?
“Abbiamo un’altra visione della disabilità. Una visione che ripudia i piagnistei, la pornografia del dolore, e punta su un racconto al positivo, anche spiritoso, con molta autoironia. Tanto è vero che con noi in squadra abbiamo un disegnatore umoristico straordinario come Stefano Disegni. Abbiamo una differente impostazione; prima di tutto perché ci rivolgiamo ad un pubblico giovane e poi perché ci crediamo davvero. Le regole sono: non ricorrere mai all’aggressività, alla volgarità, al battibecco, alla pratica di sbattere il mostro in prima pagina, come si dice. Al culto del supereroe, perché di Alex Zanardi ce n’è uno, di Bebe Vio ce n’è una, sono importanti perché sono simboli, ma non sono la media. Il resto è la normalità dei cinque milioni di famiglie che convivono con la disabilità. Noi cerchiamo di raccontare con pudore ed educazione questa realtà”.
E come si fa?
“Devi essere innanzitutto bravo e competente. Se domani mattina la signora ‘Pizza e fichi’, con le labbra gonfiate a canotto e il seno di fuori , decide che si occupa del sociale, come è successo anche in Rai, per noi, per il servizio pubblico, è un danno gigantesco. Perché se uno parla di qualcosa deve conoscerla, deve essere esperto. Ad esempio, per tornare alle Olimpiadi appena terminate, se vuoi parlare di sport, devi essere esperto di sport. Infatti noi non parleremo di sport, ma di riabilitazione, della storia di Guttmann, di Antonio Maglio, che è il medico italiano che chiamò Guttmann a progettare le paralimpiadi in occasione delle Olimpiadi di Roma. Di sport parleranno altri. Noi parleremo della storia dell’emancipazione, del mondo della disabilità e dei diritti. E’ lo stesso modello che ha fatto il successo di Raidue come rete dedicata alle Olimpiadi di Tokio2020. Il mio direttore è stato molto coraggioso, ha scelto di mettere competenza e qualità nel racconto delle Olimpiadi e i risultati si sono visti. Perché alla fine la qualità paga. Non è vero che tutti possono fare tutto. Il giornalista deve conoscere, ma poi deve cedere la parola a chi ne sa di più, con correttezza e pudore”.
I modelli che vanno per la maggiore in TV però sono altri…
“E sono sbagliati. Il fatto che per parlare di sport oggi si debba apparire seminude tutto il giorno, avere una storia sentimentale tormentata, essere famosa per la propria vita sessuale, lo trovo pazzesco. Sono esterrefatta. Raidue ha chiamato delle signore per bene, educate, che non dicono parolacce, non sono aggressive, che non stanno con le tette di fuori, che non si fanno sparare la luce davanti. E che sono esperte. I risultati si sono visti. Perché il pubblico vuole questo. La televisione è sempre una maestra, Può essere una cattiva maestra, come diceva Popper, o una buona maestra. Di sicuro ha sempre una funzione educativa, in positivo o in negativo. Ti forma. E quindi è essenziale che i temi del sociale siano trattati con qualità e competenza”.
In che modo?
“Affidando innanzitutto il compito a persone e ben educate, non aggressive, competenti e, anche se può sembrare secondario, che parlino con calma. Il nostro pubblico spesso ha a che fare con esperienze dure, è un pubblico fragile, e non puoi urlargli in faccia, non puoi parlare veloce, anche perché vieni tradotto, sia con i sistemi di traduzione elettronica per i ciechi che con la lingua italiana dei segni. Quindi il tono è fondamentale. Io oramai sono abituata a questo modo di fare anche nella vita di tutti i giorni. E ritengo sia molto più bello, molto più interessante, ascoltare un discorso fatto con calma e sereno, piuttosto che un discorso aggressivo. Poi c’è il contenuto ovviamente, che va trattato con grandissima cautela, perché puoi fare danni enormi. Si pensi al tema delicatissimo delle cure e delle medicine ‘miracolose’. E poi anche alla prevenzione, a tutta quella una serie di elementi che metti sul piatto e che ti fanno fare scelte con prudenza, con attenzione”.
Da questo punto di vista come è messo il nostro Paese?
“Dobbiamo dirlo chiaramente: noi siamo un esempio per il mondo intero. Siamo ammirati a livello internazionale. Siamo la nazione più inclusiva del mondo: quella che ha abolito per prima le scuole speciali, l’interdizione, abbiamo fatto la legge sull’amministrazione di sostegno che viene osservata con ammirazione da tutto il mondo. Non è un caso che noi siamo i figli di un’impostazione diversa, e dunque è un dono prezioso che dobbiamo valorizzare. A partire dal racconto televisivo. E dallo sport, che è un linguaggio straordinario che comunica con tutti”