Usando la cassaforte di Netflix come una enorme cineteca, si trovano sorprese, come «Mandy», un film del ’52 inglese, di produzione Ealing specialista in realismo satirico con la regia dell’Alexander Mackendrick di «Piombo rovente» e della «Signora omicidi».
di Maurizio Porro
Si racconta la storia di Mandy, bambina sordomuta e del suo percorso per imparare a parlare, anticipando tutti gli altri film sul tema, in un anno in cui l’Oscar è stato proprio vinto da «Coda i segreti del cuore», remake di «La famiglia Bèlier», che era sordomuta. Mandy è eccezionalmente misurato e riservato nel trattare la difficile rieducazione della bambina che non sente e non parla, affrontando i problemi legati alla terapia delle speciali scuole (Jack Hawkins, poi spesso in divisa anche sul fiume Kwai, vi insegna al meglio) e ai molti pregiudizi borghesi della famiglia che pensa di risolvere tutto eccedendo in coccole e affetto a porte chiuse.
Recitato al millesimo psicologico dalla bambina (Mandy Garland), dal sospettoso padre (Terence Morgan) e dalla coraggiosa madre, la bella Phyllis Calvert che poi troveremo in fiammeggianti melò di cappa e spada, il film era per i tempi un punto di domanda civile. Va notata la coraggiosa priorità rispetto ai «Figli di un Dio minore» e soprattutto ad «Anna dei miracoli», l’opera simile ma che arriva solo nel 60: a teatro con Anna Proclemer e Ottavia Piccolo, una di quelle emozioni che non si appannano, al cinema con Anne Bancroft e Patty Duke, un Oscar ciascuna nel ‘62, edizione liberal che premiò anche Peck ne «Il buio oltre la siepe».
Al di là del fatto privato, «Mandy», ambientato in una invisibile Manchester, racconta la società che sta intorno e addosso alla piccola, le cui conquiste sono magnificamente analizzate nei primi piani infantili, fino a quel clic del miracolo della conoscenza ma senza misticismo, mentre intorno la gente esercita tristi e banali gossip.