Da ormai un paio di decenni in molto cinema e in certa serialità televisiva è stata osservata una generale preferenza verso le immagini scure e povere di colori sgargianti. Siccome è quasi letteralmente questione di sfumature, è impossibile avere numeri o dati a riguardo, ma è probabile che nelle esperienze di visione di molti ci sia stato più di un momento di spaesamento di fronte a un’immagine troppo buia o a scene esageratamente desaturate.
La tedenza a un generale grigiore, o comunque a un cromatismo che sta dalle parti del seppia o di altre tinte tenui e non particolarmente sgargianti, è stata notata dalla critica Emily VanDerWerff, che su Vox ha proposto alcune ragioni sul perché stia succedendo in un articolo intitolato “I colori: dove sono finiti?”.
«A prescindere dal tipo di storia che si vuole raccontare», ha scritto VanDerWerff, «una qualche pallida tinta blu o grigia può coprire tutto […] Tantissimi film e tantissime serie ormai sono coperte da un filtro opaco che toglie vivacità e conduce verso una noiosa uniformità, in cui ogni inquadratura finisce per assomigliare a ogni altra».
In effetti, se è comprensibile che un film ambientato nella cupa Gotham City sia esso stesso cupo, che un film noir sia coerentemente privo di colori vividi o che in una serie come Game of Thrones le immagini si facciano più oscure di pari passo con la drammaticità della storia, ci sono molte altre situazioni in cui queste scelte cromatiche sono meno comprensibili. Per esempio nei casi di rifacimenti recenti di saghe cinematografiche o serie televisive del passato che, pur trattando argomenti simili, lo fanno con molti meno colori.
Secondo VanDerWerff, ci sono cinque principali motivi per cui «sempre più film e serie tv sembrano girati in una grigia desolazione». Alcuni sono perlopiù tecnologici, altri culturali: nessuno spiega da solo un fenomeno così grande, vasto e ormai duraturo; ognuno, specie se insieme agli altri, aiuta in parte a motivarlo.
La prima ragione proposta da VanDerWerff ha a che fare con una questione di fattibilità. Fino agli anni Novanta, prima delle riprese in digitale, per dare un determinato aspetto cromatico a un film bisognava lavorare di lenti e luci, e impegnarsi perché tutto ciò che compariva nelle scene, dai costumi all’arredamento, dalle case alle strade, fosse in accordo con una certa idea iniziale. Poi, in post-produzione, c’era modo di correggere, per esempio aggiungendo specifici componenti chimici alle pellicole: ma era un procedimento lento, rischioso e complicato.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila diventò molto più semplice, grazie alle riprese e alla post-produzione digitali, dare un certo aspetto a un film. Compresa una tinta volutamente esagerata o irrealistica, nell’intenzione di evocare meglio determinate emozioni e atmosfere. Non è la stessa cosa di mettere un filtro Instagram a una foto: serve competenza e c’è bisogno di immagini che già in partenza siano state girate in un certo modo, ma senz’altro negli ultimi vent’anni il digitale ha aperto a una serie di alternative che prima erano impossibili o difficilissime. E come spesso succede quando ci sono nuove alternative disponibili, molti le hanno sperimentate.
A questa prima ragione tecnologica ne segue una più culturale, legata all’impatto avuto da Matrix nel 1999. Nell’accentuare una tendenza già individuabile negli anni Novanta – in molta fantascienza, ma anche in un thriller come Seven – e nel dover rappresentare un mondo di per sé estremamente tetro, fatta eccezione per qualche dettaglio (il verde del codice, l’azzurro della pillola per restarci e il rosso della pillola per uscirne) Matrix era un film cromaticamente cupo. Ebbe grandissimo successo, e quindi molti altri cercarono di imitarlo anche in quell’aspetto, potendolo peraltro fare grazie alla tecnologia che intanto era arrivata.
Una cosa simile successe, nella serialità televisiva, con i toni prediletti dai creatori della serie I Soprano, una di quelle serie da prima-e-dopo, andata in onda dal 1999 e che ebbe un impatto culturale paragonabile a quello di Matrix.
La terza ragione ipotizzata da VanDerWerff ha a che fare con una possibile, e probabilmente esagerata, controreazione all’arrivo del digitale e degli schermi domestici degli ultimi anni, sempre più in grado di essere luminosi e sgargianti. Il grigiore dei film e delle serie sarebbe quindi da interpretarsi come il tentativo di ricreare, nonostante le cineprese e gli schermi digitali, le caratteristiche del cinema di una volta.
Più semplicemente, le scene forse sono diventate più cupe perché spesso lo sono anche le storie che vengono raccontate. Sarebbe quindi colpa, secondo VanDerWerff, di un generale pessimismo verso il futuro. Un’ultima spiegazione proposta da VanDerWerff ruota intorno al fatto che insieme a tante altre novità e possibilità, cromatiche e non, l’affermazione del digitale ha permesso di fare quasi tutto ciò che si vuole con gli effetti speciali. In questo senso, scene scure e poco colorate risultano utilissime perché, in estrema sintesi, meno si vede una scena e meno si nota che certi effetti speciali non sono perfetti.