Due bambini dentro una favola

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“La stanza delle meraviglie” racconta la disabilità in una New York piena di sogni

La “stanza delle meraviglie”, o “gabinetto delle curiosità”, quello che i tedeschi chiamano “Wunderkammer”, è il luogo in cui il collezionista e il modellista celano la loro raccolta di oggetti. Può essere una stanza, un armadio oppure, come nel film di Todd Haynes tratto dall’omonimo romanzo di Brian Selznick, una vita intera, tutta la collezione degli oggetti, ricordi, momenti, affetti che compongono un’esistenza.

Su queste tracce si muovono le storie parallele dei due dodicenni protagonisti del film, Rose (Millicent Simmonds) e Ben (Oakes Fegley, già visto nel disneyano “Il drago invisibile”). Rose, sordomuta, vive nel New Jersey del 1927 ed è innamorata del cinema, muto come lei, a un passo però dai primi film sonori. Incompresa dal padre, parte da sola per New York alla ricerca di una diva del grande schermo che si scoprirà avere per lei un ruolo fondamentale. Parallelamente, nel 1977, il giovane Ben è sconvolto dalla recente morte della madre e si mette in testa di ritrovare il padre che non ha mai conosciuto. Anche Ben, dopo un incidente, diventa sordo. Entrambi dunque non possono udire, ma vanno a New York alla ricerca di una persona e di un sogno. Il racconto parallelo del loro viaggio diventa una favola d’autore, misteriosa e affascinante, lontanissima dal sapore sovraeccitato e sgargiante di alcuni film per bambini.

Il merito è prima di tutto dei due giovani interpreti, soprattutto Millicent Simmonds, che è davvero una ragazzina non udente, comunica attraverso il linguaggio dei segni ed capace di restituire tutti i sentimenti di Rose solo con gli occhi e con i gesti. Del resto la sceneggiatura di Selznick, lo stesso autore di “La straordinaria avventura di Hugo Cabret” che per la prima volta adatta autonomamente per lo schermo un suo romanzo, conserva il punto di vista dei bambini, il loro stupore, il loro piglio indomito sulla vita.

Dietro la macchina da presa invece c’è Todd Haynes, un autore abilissimo nel percorrere in lungo e in largo il ‘900 con le sue ambientazioni, come ha già fatto per gli anni ’50 di “Lontano dal paradiso” e “Carol” e gli anni ’80 di “Velvet Goldmine”. Qui ci porta nel 1927, fotografato in bianco e nero, raccontato attraverso i codici del film muto, con didascalie ed effetti sonori, e il 1977, tutto virato ai toni saturi della fotografia dell’epoca.

Ben e Rose erano perfetti per l’immaginario di Haynes, abituato a narrare personaggi ribelli, anticonformisti e decisi a cambiare le proprie vite e il mondo. La vicenda dei due piccoli protagonisti è apparentemente solo una storia intima, ma si fa racconto dei cambiamenti epocali di un’intera città, New York e i suoi abitanti, e al contempo riflessione sulla disabilità, non come un limite ma come un modo diverso di vivere la vita. Non a caso Haynes ha scelto di scritturare altri attori non udenti, oltre alla protagonista, tutti interpreti della tranche ambientata nel 1927: del resto, durante il cinema muto, gli attori sordi erano numerosissimi anche perché la loro gestualità sullo schermo appariva più espressiva. Il pregio principale del regista però, come in tutta la sua filmografia, è la sua vicinanza al mondo interiore dei protagonisti, abbinata a scelte estetiche rigorose. Tanto è accurata e studiata la resa visiva del racconto, tanto è caldo il suo approccio con i sentimenti, fino alle ultime sequenze rivelatrici narrate attraverso modellini, dove la narrazione si fa pura.

Probabilmente “La stanza delle meraviglie” sarà considerato un titolo minore nella filmografia di Todd Haynes ma, a per chi sarà in grado di lasciarsi andare alla favola, regalerà un viaggio davvero magico in una New York del passato ancora piena di sogni

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