Orlandi, l’oro nel silenzio del “negher” milanese

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Il pugile sordomuto vinse ad Amsterdam 1928. A Porta Romana lo chiamavano così con affetto

«El negher» era un appellativo affettuoso. Oggi non risulterebbe di buona intonazione. Per il vero era «El negher» di Porta Romana, il quartiere milanese della sua gioventù. La boxe americana ha conosciuto meravigliosi campioni neri, talento, classe, purezza dell’istinto e dei colpi.

Non solo scazzotatori. Ecco, Carlo Orlandi pugilisticamente era uno di loro: un nero-bianco con la pelle bronzea che suggerì il nickname.

Fisicamente anche altro lo distingueva: grandi orecchie a sventola, un naso pigiato sul viso che lo faceva pugile per chiunque lo incontrasse. Nato nella periferia milanese di allora, oggi si legge Seregno, nell’aprile del 1910, a 18 anni stava sul podio di Amsterdam mentre il tricolore saliva: campione olimpico dei pesi leggeri. Che bello ascoltare quell’inno, hanno raccontato centinaia di medaglie d’oro nostre. Ma lui? Lui sordomuto. Chissà! La sorte gli aveva dato il talento, ma tolto molto di più per lo spavento provocato da un cane che aveva azzannato una spalla. Carletto, diminutivo intonato alla taglia, farfugliava parole, un po’ smozzicate, capiva leggendo il linguaggio sulle labbra, il gesto disegnava il pensiero. Negli anni Settanta, ormai lontano dai momenti di gloria, vestito della sua povertà, un po’ incerto sulle gambe, faceva spettacolo per i clienti delle riunioni pugilistiche al Palalido milanese che lo vedevano aggirarsi nel ring side: si portava sotto l’angolo dei pugili e mimava le azioni, parlava con mani che si muovevano perfin veloci, abbozzava sempre la stessa frase in dialetto milanese «Sinister e gamb».

Tenero e patetico, un po’ comico: sembrava un umano burattino mosso dall’alto. Sapeva cosa fare molto più di chi stava fra le corde. Ispirato dal filmato di un match che fece storia, fra l’americano Jack Dempsey e il francese George Carpentier, a 15 anni prese a frequentare le palestre milanesi e ne divenne un fiore selvatico. Capitò che un giorno, nella solita palestra ambrosiana, Leone Jacovacci, lui sì nero di pelle, italiano con origini nel Congo, un talento, autentico nostro campione dell’epoca, finisse a terra in allenamento. Allora quel moretto, che lo guardava, cominciò a sparare colpi nel vuoto, a dimostrare dove aveva sbagliato il campione. Un intuito che sorresse sempre la sua vita sul ring.

Ad Amsterdam, Giochi del 1928, la squadra di boxe conquistò le prime tre medaglie d’oro della sua storia. Olimpiadi che lasciarono il segno: la prima volta delle donne nell’atletica, venne rivisto e ristretto il programma, tennis e tiro messi al bando, tornò la Germania dopo 16 anni di assenza, salì sul podio d’oro della vela il futuro re di Norvegia, il principe Olaf. I pugili azzurri si prepararono in uno chalet sul laghetto del Segrino, vicino a Milano e in Olanda alloggiarono sul piroscafo Selinunte. Il partito fascista teneva molto ai Giochi e ne restò deluso per il numero di medaglie (7 ori, 5 argenti, 7 bronzi). Pagò il presidente del Coni. Furono, invece, i tre moschettieri del pugno ad indorare la partecipazione: Vittorio Tamagnini, peso gallo 18enne di Civitavecchia, primo oro battendo l’americano Daley, dopo le proteste statunitensi sul verdetto. Poi toccò a Orlandi. Infine al medio, milanese, Piero Toscani che sconfisse il ceco Hermanek, e furono ancora risse sul risultato. Le medaglie di Amsterdam (solo 8 categorie di peso) furono pesanti. Perfino più pesanti, per il difficile contesto, di quelle al collo dei grandi nomi, Benvenuti su tutti, che illustrarono Roma 1960

Il moro Orlandi era arrivato da campione italiano della categoria. Favoriti il tedesco Dubbers, lo svedese Berggren (poi bronzo), il danese Nielsen, campione uscente, e l’americano Steve Halaiko. Il nostro fece subito lezione con pugilato spavaldo, preciso, elegante. Non violento, ma con un pizzico di cattiveria. Nel primo incontro ci rimise un dente, un incisivo, ma si liberò dello spagnolo Sanz. Ai quarti mise ko il sudafricano Cecil Bissett. In semifinale fece i conti e vinse ai punti con il veterano Nielsen. In finale anche il potente americano Halaiko, tenuto debitamente a distanza, comprese che quel 18enne dilettante aveva nel sangue vera arte pugilistica: perse ai punti. Incoronato sul ring, eppoi dalla regina: l’emozione più inattesa. Proprio Guglielmina d’Olanda, inizialmente contraria ad una Olimpiade festa pagana, gli regalò nel ballo di chiusura la sua mano sulla spalla e parole da scolpire in testa: «Non rivedremo più un pugile come lei».

Dopo nove mesi «El negher» passò al professionismo. Una lunga maratona durata fino al 1944, chiusa con 127 match e 98 vittorie. Si battè con gli italiani più forti: Aldo Spoldi, Cleto Locatelli, Saverio Turiello, Michele Palermo, Enrico Venturi. Vinse il titolo italiano, eppoi l’europeo leggeri, a Milano, contro il belga François Sybille. Provò in Sudamerica e rimediò due scoppole che irritarono il partito fascista: gli costarono una squalifica. Al Vigorelli milanese subì un devastante ko dai colpi di Pedro Montanez, mentre stava vincendo con la sua boxe effervescente. Rimase lontano dal ring 20 mesi, a lungo i medici provarono ad evitargli un ritorno. Ma lui, cocciuto e caparbio, non ne volle sapere: vinse, perse, gli ultimi incontri sul ring montato nei cortili di qualche casolare. Se ne andò dalla vita il 29 luglio 1983: solo, perduto il fratello che lo faceva lavorare in officina, senza più la sua medaglia. Passava da un ospizio all’altro. Saverio Turiello, ex rivale ma anche un amico, dagli Usa gli mandava qualche soldo. Lo stroncò il cuore, come nemmeno fecero i pugni.

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