I ragazzi sordi di Paolo VI: dal silenzio alla parola

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È raggiante Nada, diciotto anni appena compiuti, quando scopre che il giorno successivo non sarà festa e le lezioni si terranno regolarmente. «Che bello!», esclama seduta di fronte al banco. Volto incorniciato dai lunghi capelli scuri che nascondono l’apparecchio acustico, indossa la camicia bianca che è la divisa d’ordinanza. «Meglio venire qui… A casa mi annoio». Bastano poche frasi di un’adolescente alle prese con la maturità per capire che questa è una scuola singolare.

 

Centosessantasette alunni, dal nido al liceo delle scienze umane, “figli” di Paolo VI, il Papa che domenica scorsa è stato proclamato santo. O meglio, sono i suoi ragazzi prediletti. Tutti sordi. E tutti protagonisti di quel miracolo dell’“effatà”, di quell’“apriti” pronunciato da Cristo lungo le strade della Palestina con cui diede la parola a un sordomuto. Un miracolo che si ripete giorno dopo giorno da 47 anni e che ha coinvolto oltre settecento studenti passati da queste aule dove viene abbattuto il muro del silenzio totale e si realizza un’insperata apertura agli altri e al mondo che, partendo dall’udito, coinvolge l’intera persona.

Come vuole il brano del Vangelo, qui siamo davvero in Palestina: a Betlemme, fra i corridoi nell’istituto pontificio Effetà che da quel “grido” taumaturgico del Signore prende il nome. All’ingresso si legge che è una scuola «per la rieducazione audiofonetica». E poi compare un altro nome: quello di Paolo VI, cui il plesso è dedicato. Perché il Papa di Concesio l’aveva voluto in prima persona come dono di carità da lasciare alla Terra Santa dopo il suo storico viaggio del 1964.

Nada ha trovato la voce all’asilo di Effetà. Come Isrà, 24 anni, che dopo essere stata studentessa dell’istituto è oggi un’insegnante nelle stesse classi in cui lei ha cominciato a parlare. O come Alì, 23 anni, che nonostante il suo gravissimo difetto all’udito sta concludendo un corso in scienze infermieristiche all’Arab American University di Jenin. O ancora come chi – è il caso dei primi alunni oggi più che quarantenni – lavora in una lavanderia o in un’officina dopo aver messo su famiglia. Storie di rinascita oltre la disabilità. Storie di speranza che, però, si scontrano con aridi numeri. Sono quelli del bilancio in rosso della “scuola di Montini”, sempre più alle prese con le risorse che scarseggiano.

«È anzitutto la Missione Pontificia per la Palestina-Cnewa, legata all’episcopato nordamericano, a sostenerci. Ma ormai il fondo annuale che ci arriva non è sufficiente neppure a pagare le insegnanti», lancia l’allarme la direttrice suor Lara Hijazin. Quarantadue anni, originaria della Giordania, laurea in archeologia, è una delle sette religiose della congregazione italiana delle Maestre di Santa Dorotea che ha realizzato il sogno di Montini e che da sempre gestisce la struttura.

«Nel carisma del nostro fondatore, san Giovanni Antonio Farina, c’era proprio l’attenzione alle ragazze sorde che chiamava le “pupille dei miei occhi” e per le quali aveva aperto a Vicenza una scuola che ancora esiste. Qui a Betlemme tocca a noi, oggi insieme con quaranta laici, dare voce a chi la voce non ce l’ha». E aggiunge: «Per far quadrare i conti dovremmo rinunciare alle superiori. Ma non ce la sentiamo. Le questioni di budget non possono prevalere sulla persona, soprattutto quando si tratta dei più fragili».

A fianco dell’istituto c’è la Fondazione Giovanni Paolo II, la onlus per lo sviluppo e la cooperazione promossa dalle diocesi della Toscana che a Betlemme ha la sua sede per il Medio Oriente. «Da anni supportiamo l’istituto – spiega il vescovo Luciano Giovannetti, emerito di Fiesole e presidente della Fondazione a cui contribuisce la Cei –. Adesso la priorità è lanciare un ponte fra l’Italia e la Terra Santa per assicurare un futuro certo a questa realtà che non ha eguali in Palestina e non riceve fondi dallo Stato». Una pausa. E riprende: «Paolo VI è stato un pastore non solo di straordinaria profondità intellettuale ma anche di grandi gesti e ha declinato il Vangelo in promozione umana. Effetà ne è un esempio e non può essere dimenticato nei giorni in cui Montini diventa santo».

Per capire questo laboratorio bisogna entrare in un’aula che accoglie le “matricole” di tre anni. Quando i piccoli arrivano, «sono come muri», dice Arlen, la loro maestra. Hanno, sì, gli apparecchi acustici o l’“orecchio bionico”, vale a dire l’impianto collegato al nervo acustico nel cervello. «Ma non riescono a distinguere suoni e vocaboli». Eppure già a quattro anni i ragazzini ti assalgono gridando marhabaan, “ciao” in arabo, quando varchi la soglia dell’aula. E alle medie parlano in inglese. E alle superiori raccontano di aver studiato storia e letteratura. Come Bisan, 16enne dall’intelligenza vivace, divoratrice di libri, che ha vinto la sua sordità profonda. «È questo percorso che mostriamo ai genitori – osserva la direttrice –. E quando si rendono conto che un ragazzo di cinque anni può sostenere una conversazione o uno di dodici un’interrogazione, dicono commossi: “Ma allora c’è un domani per mio figlio…”».

A Effetà non si ricorre alla lingua dei segni. «Abbiamo messo al centro il metodo orale – afferma suor Lara –. Ed è un cammino ben più complesso, che parte dalla lettura labiale. Siamo convinti che l’integrazione di un ragazzo sordo in periferie poverissime, come quelle da cui provengono i nostri allievi, non può che passare dalla possibilità di comprendere chi ti parla e di comunicare a pieno con la parola». Ecco perché, negli anni della materna e in quelli iniziali delle elementari, le lezioni in aula si affiancano alle sedute di logopedia. A turno ogni studente ha un incontro di un’ora a tu-per-tu con la “voce” della sua tutor. Razan ha un piccolo di quattro anni nella sua stanza piena di giochi e figurine. A lui fa toccare la gola per “sentire” con il tatto le vibrazioni della “R”. «È tra le lettere più difficili da far recepire». Poi ci sono le insegnanti di sostegno. «La chiave di volta – racconta una di loro, Veronica – è quando il bambino comincia a capire. Di fronte a lui si spalanca il mondo. Comprende e comunica, come non aveva mai fatto prima. E acquista fiducia in se stesso dopo aver vissuto per anni in una campana di vetro». Però tutta questa schiera di “esperti” fa lievitare le spese. «Ma è la sola via possibile», ribadisce suor Lara.

È come una piccola oasi l’istituto che si affaccia su via Arafat, all’angolo con via Paolo VI. Accanto al portone principale svettano tre bandiere: sono quelle della Palestina, del Vaticano e dell’Italia. Nella hall sono state rispolverate le foto in bianco e nero del Papa bresciano con tre delle prime alunne di Effetà che aveva voluto giungessero a Roma per incontrarlo. «Montini – sottolinea suor Ginetta Aldegheri, veronese di nascita ma da quarant’anni fra i bambini di Betlemme – è stato davvero un Papa dal grande cuore, come disse il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, abbracciandolo in Terra Santa. Un profeta che a Betlemme ha scelto di guardare ai più poveri dei poveri: i bimbi che non hanno neppure la parola».

Infatti Paolo VI rimase colpito dall’alta incidenza della sordità fra i piccoli della Palestina. «Tutto ancora tremendamente attuale – ammette suor Lara –. I nostri studenti sono per la maggior parte figli di consanguinei. Vengono da villaggi isolati, fra Betlemme e Hebron, dov’è tradizione sposarsi fra cugini anche di primo grado per non disperdere il patrimonio familiare. Ci sono comunità di tremila abitanti dove quasi tutti hanno lo stesso cognome». E in località così ermetiche l’handicap è visto come una punizione divina. «Alla donna viene addossata la colpa dei “difetti” del figlio. E a lei è demandato ogni compito educativo».

La famiglia è tutt’altro che un alleato. «Ci raccontano gli studenti – confida Hala, insegnante da 24 anni ad Effetà – che, quando un parente viene in visita a casa, sono costretti a togliersi le protesi o a restare chiusi in camera. Perché i genitori li considerano una vergogna. Padri e madri, invece di esserci di supporto alla nostra impresa formativa, sono talvolta un ostacolo. È come applaudire con una mano sola». Eppure il battimani riesce comunque. All’uscita, quando finiscono le lezioni, c’è baccano: urla, chiacchiere, qualche scherzo. «Non sembra certo una scuola di sordi…», scherza suor Lara. E suor Ginetta si commuove: «Ogni tanto ripenso a quella piccola che per due anni è stata completamente muta. Mai una parola in classe. Oggi è un’assistente sociale… Chi l’avrebbe mai detto».

Era il 1971 quando ventidue bambini sordi, da tre a sette anni, entravano per la prima nell’istituto Effetà di Betlemme. Si realizzava così il sogno di Paolo VI che, di ritorno dal viaggio in Terra Santa del 1964, aveva chiesto una scuola per i piccoli “senza parola” della Palestina. A distanza di quasi mezzo secolo, l’istituto è un polo in grado di accogliere alunni dal nido alle superiori. Arrivano dalle periferie di Betlemme e Hebron. Non più, come accadeva in passato, anche dal nord della Palestina e da Gerusalemme. «Il muro costruito da Israele a poche centinaia di metri dalla scuola – riferiscono le insegnanti – impedisce a coloro che vivono dall’altra parte di giungere qui».

Su 167 studenti, quelli cristiani sono appena due. Il resto è musulmano. «La nostra scuola è per gli ultimi senza distinzioni di credo – spiega la direttrice suor Lara –. Così l’aveva immaginata Paolo VI: una “casa” attenta alla vita debole, nel segno dell’amicizia e della riconciliazione». Certo, come prevedono i piani di studio statali, c’è anche l’ora di religione islamica. «Ma in ogni aula abbiamo un’immagine di Maria con il Bambino fra le braccia che è icona condivisa anche dai musulmani – dice suor Ginetta –. Nessuno si è mai lamentato. Anzi, qualche genitore ci domanda: “Ma quale Dio è il vostro che vi fa fare tutto questo a famiglie di un’altra fede…”. E poi ci abbracciano: “Che cosa sarebbe mio figlio senza questa scuola che gli ha cambiato la vita…”».

Oggi, come al suo esordio, Effetà ha anche un convitto interno. Ha ospitato fino a 70 allieve. Adesso sono 24, hanno dai tre anni in su, e provengono da villaggi troppo lontani da Betlemme per essere raggiunti ogni pomeriggio. Con le più piccole dorme un’educatrice. Le altre possono contare sulla vicinanza delle suore: la porta della comunità religiosa è sempre aperta di notte, accanto alle loro camerette. E in questi giorni la scuola è in festa per la canonizzazione di Montini. Le insegnanti mostrano con orgoglio nella cappella le “reliquie” del Papa bresciano: uno zucchetto, la fascia bianca, il bastone. E ripetono: «Paolo VI santo? Per la nostra scuola è un onore avere il suo nome».

COME SOSTENERE LA SCUOLA DEI BAMBINI SORDI DI PAOLO VI

Un gesto concreto di solidarietà per celebrare la canonizzazione di Paolo VI, il primo Papa pellegrino in Terra Santa che a Betlemme nel 1964 volle si realizzasse un istituto pontificio specializzato nell’educazione e nella riabilitazione audiofonetica di bambini sordi. La scuola Effetà da quasi 50 anni accoglie ogni giorno oltre centosessanta bambini di varie religione e di diverse zone della Palestina. Ad Effetà entrano bambini sordi, isolati, emarginati ed escono ragazzi autonomi, capaci di relazionarsi con la società ed affrontare coraggiosamente il futuro. “Avvenire” insieme con la Fondazione Giovanni Paolo II invitano ad aiutare i bambini di Betlemme in ricordo di Paolo VI. È possibile sostenere i ragazzi di Effetà attraverso:

– Bonifico bancario intestato a Fondazione Giovanni Paolo II utilizzando il seguente Iban IT04I0539005458000000092116 (ricorda di inserire anche il tuo indirizzo nel campo causale)
– Bollettino su conto corrente postale n. 95695854 intestato a Fondazione Giovanni Paolo II, via Roma, 3 – 52015 Pratovecchio Stia (AR). Causale: “Per i bambini di Effetà Betlemme”
– Carta di credito o PayPal sul sito www.sostienieffeta.org

 

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