La scuola e la lingua dei segni

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Anna è un’insegnante che si è specializzata nella Lingua italiana dei segni (Lis) per cercare un canale di comunicazione con suo figlio Elia. Ha avuto ragione, a dispetto delle previsioni dei medici.

Ha portato la sua competenza nella scuola dove insegna e mi dice che, con sua sorpresa, ha scoperto che nella valutazione delle competenze di un docente la conoscenza della lingua dei segni non dà alcun punteggio. Spiega quanto la Lis sia utile non solo con i bambini non udenti, a proposito di inclusività scolastica.

Le dispiace per il punteggio, dice, ma pazienza. “La rabbia non mi serve, vado avanti”. Ecco Anna.

“Quando è nato Elia ci avevano parlato di una malformazione facciale, la labiopalatoschisi, e ci siamo concentrati sulla ricerca dei migliori chirurghi. Poi è arrivato il resto. Con la mappatura del suo DNA, la diagnosi: sindrome rara da microdelezione sul braccio corto del cromosoma 7, che porta con sé ritardo di crescita globale, ritardo cognitivo, difficoltà di comunicazione e altro. Dopo interventi anche tostissimi il nostro piccolo è cresciuto e ora ha nove anni”.

“Purtroppo soffre la mancanza di linguaggio malgrado sia un bimbo simpatico e molto comunicativo. E allora che si fa? Proviamo la comunicazione alternativa fatta di immagini, disegni, foto e di suoi gesti spontanei. Sua nonna si è accorta di quanto gesticolasse con le sue manine per farci capire qualcosa del suo mondo. E allora via a provare con la lingua dei segni che nel tempo si è dimostrata un metodo vincente. Tutti i terapisti e dottori incontrati si sono mostrati riluttanti e scettici. Abbiamo continuato da soli ottenendo grandi progressi, meno frustrazioni, atti di collera e autolesionismo che spesso accadevano ad Elia”.

“Con mio stupore e contentezza scopro, facendo corsi, che ci sono altri bimbi con problemi comunicativi che utilizzano la Lis pur non essendo completamente sordi. Mi sento quindi meno sola e più forte nel chiedere ai neuropsichiatri di turno di fornirmi qualche certificazione per avere la giusta assistenza. Intanto ricomincio a lavorare e dovendo ritagliarmi un part-time (molte mamme che ho conosciuto purtroppo hanno perso il loro lavoro) mi ritrovo a fare l’insegnante di sostegno come supplente, nella scuola pubblica”.

“Mi rendo conto che sono ricca di conoscenze dovute al mio peregrinare tra terapisti e neuropsichiatri infantili. Vedo purtroppo attorno a me che molti insegnanti si prodigano pur non avendo la preparazione professionale adatta, altri fanno scorrere il tempo diventando assistenti e accompagnatori. La scuola non è pronta alla giusta accoglienza. Non riconosce, per esempio, l’utilità della Lis e nelle graduatorie di istituto non mi viene riconosciuto nemmeno un punto. Scrivo a un sindacato che mi risponde che la Lis non è prevista tra i titoli valutabili trattandosi di competenza specifica legata all’integrazione degli alunni con disabilità”.

“Ma se un docente di qualsivoglia materia ha un requisito in più per comunicare con i suoi studenti, non è questo valore aggiuntivo valutabile? Lo studente con problemi non ‘appartiene’ a un solo docente specializzato, se fosse così non si potrebbe di certo parlare di inclusione ed integrazione.  Ma la rabbia non mi serve. Pazienza per il punteggio, il problema è della scuola non mio. Non mi arrabbio e vado avanti”.

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