Un sordomuto racconta, la mia vita senza suoni

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Il primo smartphone, la passione per le immagini. La morte del padre. E il coraggio di inseguire la felicità. Il desiderio: un bar nella Capitale.Avellino.  

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di Mariagrazia Mancuso*

Il rumore della pioggia. Il cigolio di una porta. La solita ramanzina della mamma. Salutare gli amici. Esultare a gran voce. Azioni banali. Date per scontato. Gesti quasi insignificanti. Naturali. Non diamo loro importanza. Per niente. Eppure, c’è chi vorrebbe compierli. Ma ne è stato privato. L’ingiustizia della natura. Essere sordomuti.

Fortunatamente, si pensa in positivo. Sempre. Il coraggio di essere felici. Nonostante tutto. Un gran pregio. Lui lo possiede. Giovanni Foglia, trentatreenne di Monteforte Irpino. Sordomuto dalla nascita.

E’ impossibile intervistare un sordomuto. Come si fa? Spontanea la domanda. Riposta. Nulla è impossibile. L’intervista? Una sorta di sfida. Giovanni l’ha accettata. Ha deciso di raccontare con messaggi scritti su whatsapp. Ebbene sì, la tecnologia fa miracoli.

Messaggi scritti con pazienza. Con la voglia di farsi conoscere. Voglia di trasmettere speranza. Speranza ovunque.

Messaggi digitati con mani tremanti. Procedura lenta. Ulteriore difficoltà. Affrontata con ottimismo. Come al solito. Il trentatreenne è affetto da invalidità.

«Non riesco a muovermi bene – comincia a scrivere -. Non parlo. Non sento. Non so nemmeno cosa voglia dire sentire o parlare. Mi va bene così. Ritengo di essere speciale. Speciale perché mi godo la vita così com’è. Cosa che la maggior parte delle persone “normali” non fa. Sono fiero di me stesso».

Sei agosto 1983. Si aggiunge un membro alla famiglia Foglia. Nasce Giovanni. Grande gioia. Purtroppo, i problemi si presentano da subito. Gli arti sembrano deformi. Braccia, mani e gambe distorte. Non basta. Il neonato non reagisce a qualsiasi richiamo e non emette gemiti. Accertamenti e visite mediche. Evidente il risultato. Il nuovo arrivato della famiglia non è come la gente comune. Lui ha maggiore sensibilità. E’ sordomuto invalido.

Mamma e papà non si danno per vinti. Vogliono donare al figlio una vita normale. «La mia invalidità è stato un trampolino di lancio per loro. Erano determinati a rendermi felice. Ho trascorso un’infanzia serena. I primi dodici anni della mia esistenza non ho potuto comunicare in alcun modo. Ma loro mi capivano. Stranamente. L’amore materno ha poteri magici. Non mi hanno mai fatto mancare nulla. Amo i miei genitori», dichiara.

Agosto del 1995. Compimento dei 12 anni. Età giusta per imparare la lingua dei segni. Settembre. Si aprono le scuole. Giovanni si iscrive all’ “Istituto Aurigemma” di Monteforte. «I miei mi portarono in un ambiente nuovo. Vedevo stanze con sedie e banchetti. Vedevo tanti ragazzi e adulti. Varcata la soglia di un aula, ci venne incontro una signora. Parlò con i miei genitori. Poi mi prese la mano e mi portò con sé. Mi fece capire che mi avrebbe insegnato a comunicare col mondo. Lei era la mia insegnante di sostegno. Era professionale e paziente. Le sono molto affezionato», scrive.

I mesi scolastici passano. Ore intense di lezioni. Difficile apprendere. Non abbattersi mai. Questa la regola. «Il meccanismo per imparare la lingua dei segni consiste nell’associare una lettera scritta al labiale e al movimento delle mani. Così ho assimilato a scrivere e a esprimere i miei pensieri. Anni di perfezionamento. Alla fine ce l’ho fatta. Dopo tanto tempo passato a studiare, conoscevo a memoria segni e lettere. Finalmente potevo manifestare il mio essere agli altri».

Già, la diversità spaventa. In particolare i ragazzini. «A scuola non avevo quasi nessun amico. Ben pochi riuscivano a starmi accanto. Tuttavia, non mi sono mai sentito diverso. Sapevo che non erano cattivi. Più che altro erano i diversi modi di parlare a dividerci. Loro con le parole. Io con la lingua dei segni. Capirci era un’impresa», afferma.

Il percorso scolastico dura tre anni. Licenza media. E basta con la scuola.

Arrivo degli anni Duemila. I sistemi tecnologici sono sempre più avanzati. Giovanni è affascinato dagli smartphone. «A 25 anni, decisi di comperarne uno. Imparai in fretta a maneggiarlo. Nonostante le mie mani non sapessero fare granché. Quell’aggeggio mi piaceva. A oggi, amo scattare foto. Fare selfie soprattutto. Sono un tipo moderno. Aperto a qualsiasi novità».

Niente è tutto rose e fiori. Anno 2008. La morte improvvisa del papà è un colpo al cuore. «Avevamo un legame profondo. Sono certo che non si è spezzato. Lui è accanto a me. Avverto la sua presenza. Costantemente. E’ questo che mi fa andare avanti. Ancora più sorridente di prima», conferma.

La speranza. Ultima a morire. Luglio del 2011. Tentativo alla scuola guida del proprio paese. Obiettivo mancato. «Sono disabile. Non posso guidare. Potrei causare incidenti. Non fa nulla. Esiste una soluzione in merito. Automobile con pilota automatico. Ne vorrei una tutta per me. Il mio sogno».

Sogno costoso. «Il veicolo tanto desiderato mi costa un occhio della testa. Devo pagarla. Voglio lavorare. Non tutti i lavori fanno per me. Ne sono consapevole. Mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato. Ma ho anche un altro scopo. Aprire un bar. Di porte in faccia me ne hanno sbattute. Ma a breve realizzerò l’apertura del locale. Possibilmente nella capitale, Roma. Tutto sudore della mia fronte. Gli handicap non esistono realmente. Sono soltanto un fattore psicologico».

Lui ha insegnato che le difficoltà non sono insuperabili. Mai.

«Ammetto di possedere quello che ogni uomo desidera. Una famiglia che mi sostiene e mi vuole bene. L’ambizione per il futuro. In tanti si lasciano andare allo sconforto dinanzi ad apparenti sfortune. Forse fin troppi. Bisogna capire che la sfortuna non esiste. Bisogna puntare sempre in alto. Mai e poi mai smettere di sperare in un avvenire migliore. Non esistono limiti. Volere e potere. Guardate me. Ho affrontato ostacoli insormontabili per poi essermi accorto che ostacoli non ne avevo. Dovevo soltanto darmi da fare. Cercate la via più facile. La vita va lottata, sfidata, combattuta. La vita è una sola. Va vissuta».

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