Perché non dobbiamo alimentare la pesante narrazione di sofferenza della disabilità, attraverso un linguaggio corretto
È dagli anni ‘70 che il «modello sociale» dei disability studies ci dice una cosa sacrosanta: la disabilità non esiste. Esistono, semmai, dei contesti sociali, culturali e fisici sfavorevoli, nei quali le persone possono diventare disabili se non si trovano nelle condizioni di poter fare quel che fanno gli altri, o per mancanza di strumenti e servizi utili o perché incontrano ostacoli e barriere (non solo architettoniche) sul loro percorso di vita.
Per questo Amadeus ha ragione quando sostiene che la disabilità non dipende esclusivamente dalle Istituzioni e dalla politica, ma che è una responsabilità collettiva: spolverato il classico filo di retorica ipocrita, perché sappiamo bene che l’automobile su un marciapiede o sul parcheggio giallo riservato alle persone con disabilità, almeno una volta nella vita, probabilmente ce l’ha lasciata chiunque, Ama compreso, magari con la classica scusa del «sono solo cinque minuti», ribadire un concetto così importante durante una manifestazione estremamente seguita da un pubblico generalista, non può fare che bene.
E di questo siamo tutti contenti. Peccato però che la buona intenzione sia resa vana, ancora una volta, da un uso scorretto del linguaggio.
«Chi soffre di disabilità…», pronunciato sul palco dell’Ariston con tale leggerezza durante la presentazione di un giocatore della nazionale di powerchair football, sport in carrozzina, alimenta ancora una volta quella narrazione medicalizzante di pesantezza, dolore e tristezza che da anni si cerca di combattere in nome di una normalizzazione necessaria. Perché malattia e disabilità sono due questioni ben diverse, e imparare a distinguere i due piani è il primo passo per portare a una piena inclusione. Un genitore con un passeggino, ad esempio, affronta una propria disabilità nel momento in cui deve salire al secondo piano di un edificio in mancanza di un ascensore: e questo prescinde dal suo stato di salute!
Ecco perché sono bandite tutte quelle espressioni come «portatore di handicap» (io non «porto» la mia disabilità, come fosse un peso gravoso sulle spalle che mi schiaccia di per sé), «affetto da…» (anche qui, sviscerare cartelle cliniche non serve a niente se non ad alimentare del voyeurismo morboso), oppure «costretto in carrozzina». Quest’ultimo punto cade poi a fagiolo, essendo appena trascorso l’International Wheelchair Day, il primo Marzo, ovvero la giornata dedicata alla celebrazione dell’impatto positivo che proprio le carrozzine hanno sulla vita delle persone disabili: uno strumento di libertà, altro che catene costrittive!
Esattamente come vale per un paio di scarpe rispetto a una persona cosiddetta normodotata, una sedia a rotelle o una protesi agli arti è qualcosa che mette in movimento e fa sentire vivi, non una gabbia da nascondere e per la quale vergognarsi. Anzi, la tecnologia da questo punto di vista ha fatto passi da gigante negli ultimi tempi, costruendone sempre di più all’avanguardia, ultraleggere, moderne e fighe, talvolta ideandole in combinazione con i mondi del design e della moda, rendendole ausili belli da vedere e comodi da indossare.
Insomma, con la nostra disabilità e sulle nostre carrozzine passiamo gran parte della giornata e della la vita. È per questo che dobbiamo, semmai, celebrarle e ringraziarle, mettendo in circolo una visione positiva e propositiva di ciò che possiamo fare grazie a questi strumenti, evidenziando le abilità anziché i limiti di ognuno. Nessuna sofferenza, nessuna costrizione, nessun dolore da compatire o morali da dispensare. Lasciamo stare le malattie e concentriamoci sulle persone per ciò che sono e hanno da dare, coi loro pregi e difetti, con le loro uniche caratteristiche, come faremmo con chiunque. Senza distinzioni.