Perde la causa per il figlio disabile, il tribunale pretende 300 mila euro per le spese

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di Diana Romersi

La storia di Elena Improta e di Mario, dopo 26 anni di procedimento giudiziario e una sentenza della Cassazione che le aveva dato ragione. Secondo i giudici di Appello però non c’è nesso fra i danni da parto e la disabilità del ragazzo

Ventisei anni di attesa per ottenere un verdetto e ora lo Stato chiede ad una mamma caregiver 276mila euro di spese di giudizio. «Questa non è giustizia», dice Elena Improta, 59 anni, madre del 32enne Mario, disabile dalla nascita. Nel 1996, Improta ha intentato una causa di risarcimento presso il Tribunale di Roma contro una clinica privata per i danni subìti dal figlio al momento del parto. La sentenza del rinvio in appello ha però respinto la richiesta della mamma, condannandola invece a pagare le spese processuali. Per lei una beffa .

«Il futuro di Mario adesso è a rischio», denuncia ancora la donna, che nel frattempo ha deciso di lasciare la Capitale per realizzare un progetto di coabitazione per disabili in Toscana. «Il diritto di Mario ad un giusto processo è stato innanzitutto violato e calpestato da 26 anni di causa, devastanti da un punto di vista emotivo, psicologico ed economico», ha scritto Elena in una lettera indirizzata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al presidente del Consiglio, Mario Draghi e alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Un appello disperato dopo «anni di silenziosa e fiduciosa sofferenza», scrive Impronta che giudica a sua volta la condanna al pagamento delle spese processuali «talmente spropositata da apparire punitiva e dissuasiva».

La vicenda ha inizio sul finire del secolo scorso e vede i primi due gradi di giudizio respingere le ragioni di Elena e Mario, accolte successivamente in Cassazione. La Corte suprema nel 2017 ha riconosciuto il nesso causale tra la condotta omissiva dei medici e la patologia del ragazzo, rinviando la causa in appello. Poi, ad aprile di quest’anno il nuovo colpo di scena: «La sentenza di rinvio, – spiega la donna nella lettera – scaturita da un iter quanto meno tortuoso ed incoerente, afferma invece l’insussistenza del nesso causale». E le spese processuali che nella sentenza di secondo grado del 2012 ammontavano già, dopo sedici anni di processo, a 81mila euro, lievitano fino a raggiungere la cifra record di quasi 300mila euro.

«Il dramma è che se il processo fosse durato meno avrei fatto scelte di vita diverse», racconta al Corriere della Sera la mamma. Un anno dopo il verdetto positivo della Cassazione, Elena Impronta, ha lasciato il suo lavoro di broker assicurativo per trasferirsi ad Orbetello, dove grazie al sostegno della Regione Toscana ha iniziato un percorso di assistenza a lungo termine per Mario. Si tratta del progetto sperimentale “Durante e dopo di noi”, che come previsto dalla legge 112/2016 favorisce l’autonomia delle persone disabili e la costruzione di percorsi di vita indipendenti attraverso la coabitazione. L’obiettivo è di assicurare loro un futuro anche quando verrà meno l’assistenza familiare.

«Ovviamente per noi è insostenibile pagare il risarcimento senza mettere a rischio il futuro di Mario», spiega Improta, fondatrice della onlus ‘Oltre Lo sguardo’. Nel progetto di coabitazione sono al momento coinvolti altri quattro giovani con disabilità, mentre altri ragazzi partecipano attraverso iniziative di semi-residenzialità. «Ho una responsabilità etica e morale nei confronti di queste persone», chiarisce la mamma di Mario. Anche per questo il processo andrà avanti. «Faremo di nuovo appello in Cassazione», rivela Elena Improta. E nella lettera alle istituzioni invoca «un aiuto per tutelare i diritti di Mario, che troppo spesso debbono essere urlati o pretesi anzichè spontaneamente riconosciuti».

 

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