Storie di donne con disabilità e tanto coraggio: “La diversità è solo negli occhi di chi guarda”

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Si chiama multidiscriminazione ed è la combinazione tra disuguaglianze di genere e barriere. Un mix che provoca un effetto moltiplicatore, rendendo le donne che hanno una disabilità più discriminate rispetto a chiunque altro.

Ne abbiamo intervistate alcune, scoprendo la bellezza di un’umanità forte, variegata, piena di obiettivi e soddisfazioni professionali. A dispetto di tutto e tutti

Rosaria: “I medici mi dicevano: lei ha la Sma, non può essere madre”

“Oggi sono sposata e ho due figli, ma se ho una famiglia lo devo solo a me stessa. Quando da ragazza esternavo ai medici il mio desiderio di avere un bambino, cercavano sempre di scoraggiarmi. Dicevano che non era il caso, che non ce l’avrei mai fatta e gestire un neonato da sola. Io rispondevo che alle cure materiali avrebbe potuto sopperire un’altra persona e che io avrei messo l’amore e la presenza. E così è stato”. Rosaria Duraccio, con atrofia muscolare spinale di tipo 2, oggi meglio conosciuta come Sma, ha una condizione di disabilità motoria dalla nascita. La sua vita è stata segnata da privazioni e discriminazioni – solo scuole private fino ai 9 anni di età, lontana dagli altri bambini; impossibilità di frequentare l’istituto superiore che le piaceva, perché pieno di barriere architettoniche – ma anche da grandi rivincite. La prima è quella di aver costruito una famiglia solida, piena d’amore, con un marito e due figli splendidi, nonostante il mondo medico e non solo abbia sempre ritenuto che per lei, donna con disabilità, una gioia del genere fosse un lusso. “Le donne e le ragazze con disabilità vengono discriminate sia in ragione della disabilità che per questioni di genere”, spiega. “Consegnate all’invisibilità, vengono spesso private di diritti e libertà fondamentali e questo impedisce la loro partecipazione alla vita sociale e politica. Quasi mai vengono trattate con dignità e rispetto. Sono molto più svantaggiate rispetto agli uomini con disabilità”.

Cos’è la multidiscriminazione

Il fenomeno della multiscriminazione, o “discriminazione multipla”, è la condizione di discriminazione vissuta da una persona sulla base non di un unico fattore (sesso, orientamento sessuale, razza o origine etnica, disabilità, età, religione o convinzioni personali) ma di due o più concomitanti. “La combinazione di queste due dinamiche di esclusione – disparità e disuguaglianze di genere e barriere che impediscono la piena partecipazione alla vita sociale e al godimento dei propri diritti e delle libertà fondamentali – provoca un effetto moltiplicatore, rendendo queste donne più discriminate sia rispetto a quelle senza disabilità che agli uomini con disabilità”, spiega Silvia Cutrera, coordinatrice del gruppo donne e vicepresidente FISH – Federazione Italiana Superamento Handicap. “La condizione di svantaggio e subordinazione fa aumentare il rischio di subire violenza, specialmente all’interno di contesti domestici, familiari o di cura”.

Donne e disabilità, Arianna Talamona: “Veniamo discriminate perché non attraenti”

“Il razzismo, l’ageismo, l’abilismo e l’eterosessismo, in combinazione tra loro – spiega Laura Abet, avvocato del centro antidiscriminazione Franco Bomprezzi, che cura il servizio legale di LEDHA – Lega per i diritti delle persone con disabilità – influenzano gli schemi di violenza perpetrati nella società. Se vogliamo affrontare la violenza contro le bambine, le ragazze e le donne con disabilità in tutte le varianti possibili (culturali, razziali, di condizione sociale, di età e sessuali) è fondamentale fare attenzione all’interazione tra questi ambiti di disuguaglianze e il genere”.

 

Angeli asessuati, privi di femminilità, o esseri indiavolati da “dominare”

“Sulle donne con disabilità gravano due grossi miti”, spiega Luisa Bosisio Fazzi, dirigente LEDHA e membro del board dell’European disability forum. “Il primo è quello dell’asessualità, secondo il quale non avrebbero una vita sessuale e riproduttiva (in questa prospettiva, non si pone nemmeno il problema di concedere loro l’accesso ai servizi sociali e sanitari dedicati alla sessualità e alla riproduzione), negando sostanzialmente la loro femminilità. Queste donne vengono viste come eterne bambine, esseri angelicati, senza una femminilità né una dimensione sentimentale e sessuale, senza una dignità al pari delle altre”. Il secondo mito, continua Bosisio Fazzi, è quello dell’ipersessualità, secondo il quale le donne con disabilità avrebbero una sessualità fuori controllo, da ‘dominare’. “E questa concezione legittima pratiche come la contraccezione, l’interruzione di gravidanza e la sterilizzazione forzata”. Fin da bambine, le donne con disabilità non vengono dunque riconosciute, allevate ed educate come “future donne”. “E vogliamo parlare di quelle con disabilità intellettiva? Qui si apre l’inferno”, continua. “Una miscela di pietismo, disgusto, buonismo. Le amiche con disabilità che conosco hanno subito e ancora subiscono queste discriminazioni ma per fortuna hanno reagito e reagiscono ribellandosi a questo approccio”.

Benedetta: “Io, madre di una donna con autismo”

Benedetta Demartis, presidente dell’Associazione Nazionale Genitori persone con Autismo (ANGSA), è madre di Giulia, donna trentenne con autismo grave. “Le donne che hanno una forma di autismo non sono in grado di parlare in prima persona e quindi di esprimere i propri disagi, o perché mute o perché incapaci di raccontare in modo comprensibile le emozioni o gli abusi che subiscono fuori casa, ma spesso anche in famiglia. Molte, pur con una fisicità normale, non hanno nemmeno la possibilità di esprimersi a gesti o scrivendo. Gli unici segnali di disagio che possiamo cogliere, se facciamo attenzione, stanno nel loro comportamento, che può diventare più agitato e aggressivo, fino all’autolesionismo. Di questi comportamenti problematici spesso incolpiamo il loro autismo e finiamo, invece che aiutarle, con l’aumentare la dose degli psicofarmaci, che spesso prendono già per l’ansia e l’agitazione”. Queste donne hanno un futuro già segnato, che si risolve spesso con il ricovero in strutture per persone con disabilità, quando le famiglie, esauste, invecchiano o vengono a mancare per malattie premature. “E questa è la mia angoscia più grande, – continua Demartis – pensando al futuro di mia figlia Giulia, donna fisicamente bella e completamente ingenua, che inevitabilmente potrebbe suscitare l’interesse di qualche operatore disgraziato che, indifferente alla sua fragilità, o forse proprio per quello, ne potrebbe approfittare, come spesso purtroppo si legge nelle notizie di cronaca. Come potrà Giulia chiedere aiuto?”. Anche donne autistiche meno gravi di Giulia sono spesso vittime designate di abusi o di bullismo, perché l’incapacità di saper decifrare i segnali sociali è una peculiarità di questa condizione, per cui spesso queste bambine, ragazze o donne non sanno riconoscere gli amici dai nemici.

Per definire la condizione vissuta da madri, mogli, sorelle o donne che si prendono cura di persone con disabilità o caregivers, possiamo parlare di ‘discriminazione per associazione’, perché queste donne quasi sempre subiscono una discriminazione associata a una persona con disabilità. Su di loro grava la cura e l’assistenza; sono loro le prime a perdere il lavoro nel caso in cui non riescano a reggere da sole il doppio ruolo; sono loro quelle che non vengono assunte perché si pensa che una donna con questo tipo di carico non sia una lavoratrice/professionista in grado di essere produttiva.

Nunzia: “Dopo 15 anni in istituto non mi sentivo neanche una donna”

Nunzia Coppedè, presidente di FISH Calabria, nata con artrogriposi miogena evolutiva, ha vissuto per 15 anni, dai 10 ai 25, in un istituto, perché la sua famiglia non poteva occuparsi di lei. “Quando sono uscita – racconta – mi sono accorta che parlavo sempre degli altri, mai di me. Avevo troppa rabbia dentro, non mi sentivo sicura sotto nessun punto di vista. La mia femminilità era stata annientata, non mi sentivo neanche una donna. Non avevo potuto studiare, e ho dovuto ricominciare da capo, combattendo ogni giorno contro pregiudizi e discriminazioni. Ma alla fine ce l’ho fatta, contando sulla collaborazione delle persone nuove con cui ero andata a vivere, della Comunità Progetto Sud, di cui sono uno dei fondatori. Loro hanno creduto nelle mie capacità e mi hanno sostenuta tantissimo”.

Carola: “Il rapporto col corpo è problematico, specie nell’adolescenza”

Carola Berti, 30 anni, è una donna con fibrosi cistica. Ha subìto un trapianto bipolmonare nel 2008, a 18 anni, e successivamente, nel 2018, ha avuto un rigetto cronico che ha portato, oltre a una diminuzione della funzionalità polmonare, altre patologie come diabete, ipertensione e insufficienza renale. “Per noi giovani con fibrosi cistica a volte è impossibile trattenere la tosse davanti agli altri, fare sport in gruppo o nascondere le ripercussioni che la malattia ha sul nostro aspetto esteriore, magari proprio in quella fase in cui l’immagine per una giovane donna è particolarmente importante nei rapporti interpersonali. Nel mio caso, vivere l’infanzia, l’adolescenza e tutti i rapporti di studio e lavorativi senza nascondere la mia condizione mi ha risparmiato paure e chiacchiere dietro alle spalle”. Negli anni Carola ha preso la maturità scientifica e una laurea in giurisprudenza, e attualmente lavora come impiegata. “Ma tutto ciò – continua – ha richiesto uno sforzo notevolissimo e non mi ha permesso di evitare del tutto sguardi di pietà quando giravo per negozi portando l’ossigeno con me o quando avevo violenti e prolungati attacchi di tosse mentre ero con gli amici. Benché piccola, ricordo che una mia compagna, a scuola, una volta ingerì delle mie compresse di enzimi e questo degenerò una corsa al pronto soccorso, dove i miei familiari vennero chiamati e accusati dai genitori di lasciarmi medicinali che potevano mettere a rischio la vita dei miei compagni. Ricordo di aver vissuto quell’episodio con sofferenza e dispiacere”.

Un fenomeno quasi per nulla indagato

La mancanza di dati e statistiche sulle discriminazioni che colpiscono le donne e le ragazze con disabilità rende impossibile un’analisi sulla loro partecipazione alla vita sociale e sul riconoscimento o meno di pari opportunità, ostacolando l’adozione di misure e azioni politiche ad hoc. “Va migliorata la raccolta e la diffusione di dati nazionali su questo fronte, anche all’interno di indagini e censimenti rivolti alla popolazione in generale”, precisa Cutrera. La violenza sulle ragazze e donne con disabilità è quindi un fenomeno molto diffuso ma invisibile. Queste persone, spiega Abet, “spesso subiscono violenza domestica e sessuale, ma anche e soprattutto vivono in una condizione di marginalizzazione, isolamento e persino segregazione e spesso vengono sottoposte forzatamente all’aborto e ad altre forme di controllo della fertilità. Nei casi in cui la società intorno le sostiene, vengono comunque regolarmente discriminate nel collocamento nel mondo del lavoro, nella retribuzione, nell’accesso alla formazione e alla riqualificazione, al diritto alla proprietà, al credito ed a ogni altra risorsa economica”.

Laura: “Mi piace definirmi una mamma seduta”

Laureata in comunicazione digitale, Laura Miola lavora in un negozio di abbigliamento a conduzione familiare ed è delegata per le politiche di inclusione sociale al Comune di Minturno, in provincia di Latina. Sposata e con un figlio, si definisce “una mamma su ruote”. “Mi piace definirmi una mamma seduta”. Grazie alla popolarità raggiunta negli anni su Instagram ha cominciato a vedere la sua malattia in un altro modo: quando ha scoperto che non avrebbe più camminato, sulla piattaforma ha infatti incontrato storie di persone con disabilità che facevano viaggi, si spostavano, eccellevano negli sport e superavano barriere impegnative. Incoraggiata, ha cominciato a raccontare la sua quotidianità sulla sedia a rotelle e le sue battaglie di tutti i giorni, creando attorno una schiera di seguaci appassionati che non solo fanno il tifo per lei, ma si battono anche per tramettere i suoi messaggi positivi, amplificandoli.

Donne migranti e con disabilità intellettiva le più colpite

Dati preziosi emergono da una ricerca specifica di VERA (acronimo per Violence Emergence, Recognition and Awareness), realizzata in collaborazione con l’associazione femminista Differenza Donna di Roma, poi confermati da una seconda ricerca FISH nel 2020, che evidenziano un quadro allarmante e a tinte ancora più fosche, che va dalla difficoltà delle donne a riconoscere la violenza alla mancanza di consapevolezza del fatto di essere vittime, fino alla paura di non essere credute. “Molte delle intervistate – precisa Abet – ritengono impossibile denunciare la violenza e spesso temono di essere istituzionalizzate”. Tra le categorie più colpite, donne migranti e con disabilità intellettiva. In particolare, nel periodo esaminato dalla ricerca (2018-2019), hanno risposto al questionario 519 donne e ragazze con diverse disabilità (75,3% con disabilità motoria, 17,4% con disabilità plurima, 20% con disabilità sensoriale, 26% con disabilità intellettiva, relazionale, psichiatrica o dell’apprendimento); il 33% ha dichiarato di avere subito una qualche forma di violenza e il 10% di essere stata vittima di stupro almeno una volta. Nell’80% dei casi, i reati sono stati commessi da una persona nota alla vittima.

Anna: “Vengo vista come disabile, prima che come persona. Figuriamoci come donna”

“Nella mia adolescenza – racconta Anna Rossi, volontaria e membro del comitato donne di LEDHA – Lega per i diritti delle persone con disabilità – è stata dura accettare un corpo che era diverso da quello delle mie coetanee, e il tutto è stato reso ancora più complesso dall’esigenza di vestire un corsetto che amplificava l’evidenza della mia diversità. Sono nata con osteogenesi imperfetta e ho vissuto spesso momenti di confronto e tensione con me stessa, anche causati dai commenti altrui. Mi è capitato anche più avanti nella vita di vivere situazioni discriminatorie e la cosa che mi ha ferita di più credo sia stata l’incapacità di accettare e la volontà di discriminare, anche tra persone con problemi simili. Ci sono situazioni ricorrenti alle quali onestamente non faccio più caso ma che ogni tanto mi costringono a pensare, esempi magari non troppo gravi ma emblematici di quanto la società in cui viviamo tenda a etichettare, a stereotipare e a comportarsi di conseguenza, creando situazioni di discriminazione. Vengo vista come una disabile prima che come una persona, figuriamoci come una donna, impegnata in una relazione con un partner e con il desiderio di avere, domani, una famiglia”.

L’inadeguatezza del mondo del lavoro

Anna racconta che negli anni in cui si affacciava al mondo del lavoro le è capitato spesso di fare colloqui, anche di gruppo, e capire che, nonostante il CV, chi l’aveva chiamata non si aspettava la presenza di una sedia a rotelle o delle stampelle. “Mi è anche capitato di vedere non comprese o riconosciute le mie competenze o i miei titoli di studio, penalizzate dal timore di assumere una donna con disabilità. Non nego che in quel periodo a volte sono arrivata ad interrogarmi e a chiedermi se fossi io a sbagliare qualcosa”. L’ignoranza e la carenza culturale da parte dei datori di lavoro secondo Anna si manifesta innanzitutto nella tendenza a sottostimare le possibilità di una persona con disabilità lavoratrice, indipendentemente dal suo sesso. “La categoria protetta è un’idea ancora troppo legata allo stereotipo del dipendente assunto per ottemperare un obbligo di legge e accedere a delle agevolazioni ma dal quale non ci si aspetta molto, da relegare a una funzione accessoria o meramente di base”.

L’altro lato della medaglia è legato alla difficoltà di comprensione e adattamento. “In questo caso penso alle barriere architettoniche che spesso ho incontrato nei luoghi di lavoro, ma anche alla rigidità e alla difficoltà di comprendere che alcuni diritti non sono un lusso ma nascono da una necessità, e sono legalmente esigibili. Ho diritto di usufruire dei permessi sul lavoro in base alla legge 104/92, non perché l’azienda è ‘buona’. Penso al fatto di dovermi spiegare o giustificare con i colleghi per un arrivo in ritardo in ufficio – concordato con il proprio superiore, che magari è stato il primo a sbuffare, e, ripeto, previsto per legge – ritardo magari motivato dal fatto di dover fare fisioterapia o una visita medica. Spesso mi sono sentita in dovere di dimostrare di più per essere presa sul serio, sia perché donna sia perché con disabilità”.

Linda: “I risultati che ho raggiunto spesso hanno suscitato il risentimento degli uomini”

“Come per tante altre donne – spiega Linda Legname, presidente UICI – Unione italiana ciechi – spesso i risultati che ho raggiunto hanno suscitato il risentimento degli uomini, che li considerano ottenuti più per il mio essere donna che per le effettive qualità personali. Le donne spesso non denunciano per paura, per salvaguardare la propria famiglia, il posto di lavoro, per pudore, per il timore di non essere credute, per la fatica di ricominciare, per non rimanere escluse e isolate anche dalle altre donne e per il senso di inutilità, incoraggiato spesso dai modi e dai tempi della nostra giustizia. Avere una disabilità ed essere donna, nel mio caso, ha sicuramente aggiunto un problema al problema”.

Atti discriminatori punibili per legge

“Abbiamo fondato il Comitato donne LEDHA proprio perché la figura della donna è la prima a essere discriminata per genere, età e per il fatto di essere o meno migrante e con disabilità”, sottolinea Abet. “L’abilismo è l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone con disabilità. È importante comprendere però che sia le azioni più eclatanti – come impedire l’accesso a determinati luoghi o a informazioni a causa di barriere architettoniche e sensoriali – sia quelle più sottili e infime – come usare il nome di alcune disabilità per offendere – sono punibili per legge”. La legge 67/2006 ha introdotto infatti in Italia la possibilità di fare ricorso antidiscriminatorio e in essa non si parla solo di discriminazione diretta/indiretta ma anche appunto di discriminazione derivante dalle molestie, ovvero da quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona e creano un clima di intimidazione, umiliazione e ostilità nei suoi confronti.

Rosa: “Da piccola cercavo di nascondere la mia disabilità”

Rosa Efomo De Marco ha 20 anni ed è nata senza la mano sinistra: palermitana figlia di padre italiano e madre nigeriana, alle elementari e alle medie si è spesso scontrata con la sincerità spesso “eccessiva” dei coetanei, talvolta sconfinante nella cattiveria. “Non volevo far notare alla gente che mi mancava qualcosa, nascondevo la mia disabilità. Il paradosso è che io non ho mai avuto problemi con la mia condizione, non ho mai pensato che mi mancasse qualcosa, ma non volevo neppure che mi guardassero con pietà. Spesso la gente non sa come reagire di fronte alla diversità. Crescendo poi ho notato che mi facevo dei complessi da sola, che a nessuno importava realmente che io non avessi una mano. Intorno ai 16 anni mi sono accorta che la mia vita sarebbe stata più dura di quella degli altri, sia perché con una disabilità che in quanto donna. Ma alla fine ho raggiunto tanti traguardi importanti: ho tanti amici, frequento l’università, e faccio uno sport, il Para Badminton, che mi sta regalando tante soddisfazioni, tanto che ai Mondiali del 2019 sono arrivata quinta”.

La dipendenza dal contesto familiare

Spesso la violenza si consuma all’interno del contesto familiare, nella relazione con il partner o nei luoghi in cui le donne con disabilità vengono ospitate, perpetrata da parte degli stessi caregivers (istituti, case-famiglia). Il percorso di fuoriuscita risulta quindi ancora più complicato, se non impossibile, data la dipendenza che queste donne spesso instaurano nei confronti di chi si occupa di loro”, precisa Abet. La particolare forma di violenza che si manifesta nella relazione col caregiver per il particolare rapporto di dipendenza che si instaura con la vittima è chiamata “abilismo”, e può diventare abuso di potere nella convinzione che la vittima non sia in grado di denunciare o sfuggire alla violenza a causa della disabilità. “Molto dipende dal contesto ambientale – spiega Cutrera – e da quanto le relazioni quotidiane favoriscano o ostacolino percorsi di emancipazione e empowerment”. Sui percorsi di uscita dalla violenza più adeguati alle donne con disabilità, inoltre, non c’è molta informazione. “I centri antiviolenza – continua Cutrera – spesso non sono attrezzati e il personale non è adeguatamente preparato sulle disabilità. Al momento di sporgere denuncia, inoltre, talvolta si verifica una vittimizzazione secondaria, minimizzando l’accaduto o giustificandolo”.

Benedetta: “Dobbiamo prendere in mano le redini della nostra vita”

“Non sarà una disabilità a limitare il mio amore infinito per la vita”, spiega Benedetta De Luca, influencer, modella e stilista in carrozzina: “Basta armarsi di pazienza e volontà. Prendere in mano le redini della propria vita e farne un capolavoro”. 32 anni, campana, laureata in giurisprudenza con una tesi sui diritti delle persone con disabilità e più di 104mila follower su Instagram, Benedetta è una donna coraggiosa e raggiante che, nonostante le sofferenze che ha patito fin dalla più tenera età, sorride alla vita e guarda al futuro con occhi grati e pieni di speranza. Sul popolare social network sensibilizza i suoi seguaci sui temi della disabilità in modo ironico e scherzoso, cercando anche di portare all’attenzione di chi la segue tutte le problematiche che ogni giorno chi è come lei deve affrontare, nella speranza di trasformare i disagi in miglioramenti concreti.

La “ruota del potere di controllo”

“Per focalizzare il fenomeno della violenza – precisa Cutrera – è stata identificata la cosiddetta ‘ruota del potere del controllò : lo spunto arriva da una serie di interventi sulla violenza domestica realizzati a Duluth, in Minnesota (Usa), che descrive le azioni che possono essere compiute dall’autore della violenza quando la vittima presenti una o più disabilità. Per violenza si fa invece riferimento alla Convenzione di Istanbul. Anche nel caso di donne con disabilità dobbiamo infatti considerare, oltre alla violenza fisica e sessuale, l’intimidazione esercitata con sguardi e parole, il fatto di non assecondare il bisogno di mobilità negli spazi o il cambiamento di determinate posture fisiche, il non provvedere adeguatamente alla somministrazione di farmaci, il privare di adeguati supporti negli aspetti nutritivi o il ritardare la fornitura di ausili e dispositivi per l’autonomia”. Spesso, spiega ancora Cutrera, si manifestano forme di violenza psicologica che vanno dal minacciare di privare dell’assistenza, di punire, di porre fine alla relazione. Una donna con disabilità può rischiare l’isolamento attraverso il controllo dei contatti telefonici o la frequentazione di amicizie e vicinato, o veder ridotta la propria autostima qualora non vengano favorite occasioni di formazione e occupazione.  Per le donne con disabilità è spesso difficile l’accesso ai servizi sessuali e riproduttivi, agli screening come il pap test e alla mammografia.

L’importanza di una comunicazione adeguata

Particolarmente preoccupante è dunque il livello di consapevolezza della donna con disabilità di essere vittima di violenza sessuale o domestica da parte del partner o di terzi. “Per contrastare il fenomeno, – precisa Abet – il livello di consapevolezza deve essere aumentato non solo nella pubblica opinione, ma all’interno delle istituzioni e soprattutto nelle stesse ragazze e donne con disabilità. È necessario sensibilizzare il settore della comunicazione e dell’informazione e modificare la comunicazione, l’informazione e la narrazione nei confronti della ragazza e della donna con disabilità, che deve imparare a riconoscere i pregiudizi, i linguaggi e gli stereotipi che le vengono attribuiti. Bisognerebbe anche investire sulla formazione del personale dei servizi sociali, dei magistrati, delle forze di polizia, spesso non preparato a riconoscere la violenza associata alla disabilità. Dal punto di vista culturale, la presenza di radicati stereotipi relativi alle donne con disabilità porta a non ritenerle concettualmente pensabili come vittime di abusi (asessualità e ipersessualità, incapacità di ricoprire determinati ruoli). Le donne con disabilità non vengono considerate soggetti credibili e dunque le loro denunce rimangono inascoltate, vengono prese come frutto di fantasia”.

Un manifesto per sensibilizzare

Per supportare il processo di inclusione della variabile di genere nelle politiche sulla disabilità e della disabilità nelle politiche di genere è stato adottato dall’Assemblea Generale dello European Disability Forum, nel 2011, su proposta del Comitato delle donne dell’EDF, il Secondo Manifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell’Unione Europea. Il documento è stato ratificato dalla FISH nel 2017, in occasione dell’adesione alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre) che ha visto, per la prima volta, la partecipazione di donne con disabilità alla manifestazione nazionale indetta a Roma dalle associazioni femministe, segnando l’inizio di una alleanza di FISH con le associazioni femminili. Un ulteriore passo è stato compiuto nel maggio del 2018 nel corso del Congresso nazionale FISH, col dibattito “La doppia discriminazione delle donne con disabilità”, seguito dall’approvazione di una mozione che ha impegnato l’organizzazione a promuovere l’accrescimento della consapevolezza sugli aspetti relativi alla discriminazione multipla, avvalendosi anche del supporto di un gruppo di lavoro tematico.

Le ragazze e le donne con disabilità non devono quindi essere definite unicamente per la loro disabilità, attribuendo loro a priori certe caratteristiche, imprigionandole in stereotipi in cui risultano diverse e irrevocabilmente inferiori, ma essere viste nella loro bellezza di donne, lavoratrici, figlie e madri. Perché la disabilità è negli occhi di chi la guarda.

(La Repubblica)

 

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