La storia di Emanuele, il “Charlie Gard” italiano che continua a combattere

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Come dimenticare la morte crudele che ha subito qualche anno fa il piccolo Charlie Gard, contro la volontà dei genitori che avevano fatto di tutto per salvarlo? E pensare che, per i giudici che hanno trattato il suo caso, quella sarebbe stata “il miglior interesse” del bambino.

«Uccidere qualcuno non è mai un atto di compassione. Lo Stato deve tutelare i diritti dei disabili. La storia di Charlie, per alcuni versi, ricorda tanto le esecuzioni compassionevoli naziste», dice mamma Chiara. Il suo terzo figlio, Emanuele Campostrini, ha la stessa malattia di Charlie Gard, la deplezione del dna mitocondriale (l’unica differenza sarebbe nel tipo di gene che causa la medesima patologia).

Nato nel 2008, poco dopo cominciarono le prime crisi epilettiche che portarono alla diagnosi della malattia rara. I medici dissero loro che il piccolo sarebbe vissuto un anno al massimo, secondo le migliori previsioni. Eppure, di anni ne sono passati dodici ed Emanuele non solo è ancora vivo ma è anche un bambino felice, va a scuola ed è un lupetto dei boy scout, anche se è costretto sulla sedia a rotelle ed è sordo.

Charlie poteva essere vivo, come Emanuele. Poteva crescere con la sua mamma e il suo papà. Invece, gli è stato staccato il respiratore ed è stato condotto a morte, perché la sua vita non era ritenuta degna d’essere vissuta.

«La legge sul fine vita che vige in Inghilterra è stata riconosciuta suprema, dai giudici europei, rispetto al diritto alla vita di Charlie. In Italia, invece, la legge vieta l’interruzione delle cure nei bambini senza il permesso dei genitori. Questo diritto diventerebbe, anche da noi, molto più incerto se passasse la legge sulle DAT in discussione al Senato. Penso che dobbiamo combattere perché quella legge non passi, per non metterci tutti nei guai», affermava la mamma già tre anni fa.

Ora, a distanza di tre anni, non solo le DAT sono legge, ma si sta cercando di legalizzare perfino la stessa eutanasia, l’eliminazione dei sofferenti. E sappiamo bene che in molti degli altri Paesi che l’hanno legalizzata, in troppi casi essa è stata praticata anche contro la volontà del paziente o dei parenti. Ebbene, oggi come si fa a parlare di diritti (il primo dei quali è la vita) e a strizzare l’occhio all’eutanasia? Come si fa a parlare di inclusione, se si simpatizza per una legge che, invece di eliminare la sofferenza, eliminerebbe i sofferenti?

 

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