Donne disabili, una doppia discriminazione peggiorata dal Covid

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«Le donne disabili non sono raccontate in questa società della comunicazione e quindi possono essere ignorate, non curate, non assistite, abusate e abbandonate. Il modello che viene proposto è quello di atlete paralimpiche, donne senza gambe che ballano benissimo, non vedenti che fanno cose eccezionali, tutte bravissime ma che non rispecchiano la realtà di donne ordinarie e tantomeno di quelle con problemi fisici o cognitivi».

(Silvia Cutrera, presidente della Fish -Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap- e dell’Agenzia per la Vita Indipendente)

Le donne con disabilità sono spesso vittime nella nostra società di una doppia discriminazione: quella legata al genere e quella strettamente connessa al fattore stesso della disabilità.

Capita di dimenticare che i due fattori non si sostituiscano a vicenza, ma anzi vadano a sommarsi: le difficoltà infatti, sono le stesse degli uomini disabili, con l’aggiunta appunto delle problematiche legate al genere; l’evidenza dei dati porta alla luce atteggiamenti differenziali e meccanismi patologici – sia relativamente al nucleo familiare che al lavoro e non solo – tra gli uomini e le donne disabili.

L’errore sta proprio nel non percepire le due variabili in quanto interconnesse, portando ad uno scarso interesse del problema, nonché ad una totale assenza di strategie concrete.

Ma quali sono queste discriminazioni multiple che affliggono le donne disabili?

In primis, esse si realizzano in un rischio maggiore di subire violenza ed abusi: secondo l’Associazione “Differenza Donna”, in Italia fra il 2014 ed il 2018, i casi di violenza su donne con disabilità erano di circa 143 e vedevano spesso come sfondo i centri di accoglienza e le case rifugio. Più del 70% delle donne considerate dichiarava di aver subito violenze psicologiche, il 65% economiche e più del 60% violenze sessuali, perpetrate in maggior numero da familiari e conoscenti.

Questo quadro sconcertante è stato peggiorato dalla situazione di emergenza creatasi a seguito del Covid: oltre ad indebolire i diritti, l’isolamento ha infatti aumentato i casi di violenza.

Secondo i dati Fish, durante questo periodo, oltre il 65% delle donne con disabilità ha subito una forma di violenza -fisica e/o psicologica– e il dato aumenta nei casi di disabilità plurime. A maltrattare le donne sono nella maggioranza dei casi partner o familiari e quasi 1/3 di queste vittime non si è resa conto di ciò che ha dovuto subire: tutti dati che indicano una spiacevole continuità con la violenza di genere in generale e ad allo stesso tempo un’ulteriore componente di gravità, a sostegno della necessità di considerare il duplice fattore di discriminazione.

Altro settore problematico è, senza sorprese, quello del lavoro.

Tenendo conto che in Italia le donne disabili rappresentano una parte importante della popolazione -poiché se prendiamo ad esame anche solo le limitazioni gravi (secondo l’Istat) circa il 55% delle persone con disabilità è costituito da donne sotto i 64 anni- è facile intuire quanto la loro marginalizzazione vada ad influire sull’economia e la nostra società in generale.

Eppure, vi è un’assenza pressoché totale di strategie per permettere una maggiore inclusività di queste donne nel mercato del lavoro: fin dal sistema educativo, carente in strutture e percorsi di sostegno, proseguendo poi nell’età adulta con il problematico rapporto femminile tra carriera e famiglia, l’Italia manca totalmente di un’offerta dedicata ed efficace.

La situazione Covid ha inevitabilmente peggiorato anche tale contesto: la sospensione dei servizi socio-assistenziali e scolastici ha portato ad un inevitabile sovraccarico di lavoro di cura e a una difficile conciliazione dei tempi di lavoro. Teniamo conto che, a tali drammaticità si sommano spesso ambienti domestici soffocanti, privi di un’assistenza costante e la diffusa problematica del ritorno alle attività lavorative precedenti anche a causa delle straordinarie misure di sicurezza, che rimangono perlopiù generalizzate e non specifiche per ogni casistica come dovrebbero essere.

In ultimo, non possiamo non prendere in analisi la questione relativa alla tutela dei diritti sessuali e riproduttivi: il collegamento tra discriminazione di genere e disabilità viene qui a realizzarsi nel contesto dei servizi di ginecologia e ostetricia.

Tantissime donne disabili sono ancora oggi vittime del tabù della sessualità, che le porta inesorabilmente all’impossibilità di un’ esperienza diretta della corporeità e di un concreto ascolto nonché confronto a riguardo. Spesso vi è anche un mancato accesso a controlli e cure basilari, come ad esempio le visite ginecologiche.

Da ricordare nuovamente che, assieme a questi esempi più strettamente connessi al genere, si sommano tutti quelli relativi alla disabilità in generale e che colpiscono anche gli uomini: barriere architettoniche, bullismo, assenza di un reale sostegno psicologico e fisico.

I dati e le analisi portano ad unica conclusione: è necessaria ed urgente una ripartenza che colmi le distanze e le disuguaglianze, anziché alimentarle. Non possiamo più attendere per strategie e norme che ci permettano di avvicinarci sempre più all’agognata società paritaria, in grado di non lasciare indietro nessuno.

Sfruttare l’emergenza per riprendere in analisi sistemi di comportamento sbagliati dovrebbe essere una priorità e rivelarsi l’occasione attesa, invece di cedere alla rassegnazione scaturita dagli eventi mondiali.

Isabella Rosa Pivot

 

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