Attualmente, secondo gli ultimi dati Censis, la prevalenza in Italia dei problemi uditivi è stimata al 12,1% della popolazione generale.
Questo vuol dire che circa 7 milioni di italiani sono affetti da ipoacusia con una significativa differenziazione tra le classi di età e un aumento significativo con l’invecchiamento. Mentre 1 milione di persone in tutto il mondo utilizzano un impianto cocleare, ovvero un dispositivo impiantato chirurgicamente, con lo scopo di ripristinare la percezione del suono in soggetti affetti da perdita dell’udito profonda o da sordità.
Sebbene gli impianti cocleari abbiano avuto successo, quelli ad oggi in uso non consentono di apprezzare la musica o di seguire conversazioni in presenza di rumore ambientale e fra più persone. C’è chi sta studiando un sistema diverso per poter dare una nuova qualità di vita alle persone con problemi di sordità.
Di cosa si tratta?
Quanto tempo è necessario affinché dalla fase di studio si possa passare alla pratica clinica? Di questo l’agenzia di stampa Dire (www.dire.it) ne ha parlato con il dottor Carlo Matera, chimico farmaceutico dell’IBEC e dal 2020 ricercatore presso il dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Milano (Unimi).
– Il limite costituito dagli attuali impianti cocleari oggi sembra poter essere superato. Uno studio internazionale, condotto da centri spagnoli e tedeschi al quale ha partecipato anche l’Università Statale di Milano (Unimi) sta lavorando a nuovi impianti cocleari attivabili con la luce in grado di superare i limiti degli impianti elettrici attualmente in uso. Potrebbe spiegare, a grandi linee, di che cosa si tratta e quali sono gli altri stakeholder coinvolti?
“Lo studio recentemente pubblicato sulla rivista ‘Journal of the American Chemical Society’ è il frutto della collaborazione tra il professor Pau Gorostiza, a capo del gruppo di ricerca Nanoprobes & Nanoswitches presso l’IBEC (Institute for Bioengineering of Catalonia, in Spagna) presso il quale ho lavorato per 5 anni e con il quale collaboro ancora, e il gruppo del professor Tobias Moser, direttore dell’Institute for Auditory Neuroscience dello University Medical Center di Göttingen (Germania). Partiamo con il dire che gli attuali impianti cocleari elettrici sono progettati in modo da trasformare i suoni in segnali elettrici che vengono inviati direttamente al nervo acustico e cioè ‘aggirando’ le aree danneggiate del cervello. Nonostante la loro ampia diffusione e successo hanno il limite che non permettono di sentire correttamente il suono negli scenari acuti e complessi. Non permettono cioè al paziente di comprendere una conversazione quando ci si trova in luoghi rumorosi (ad esempio al ristorante e allo stadio) e non consentono di apprezzare un brano musicale perché caratterizzato dal rapido susseguirsi dei vari suoni. Il limite dipende dalla modalità del loro funzionamento.
La coclea va chiarito, per sua stessa natura, è un organo di tipo conduttivo e all’interno contiene due liquidi: la perilinfa e l’endolinfa questo vuol dire che nelle situazioni prima descritte i segnali elettrici generati dagli elettrodi impiantati nella coclea possono diffondersi in maniera ‘esagerata’ e ‘incontrollata’ ai neuroni generando un suono di scarsa qualità perché la corrente elettrica, per sua stessa natura, non si propaga all’interno di un liquido. Per questo da diversi anni alcuni gruppi lavorano in parallelo allo sviluppo di nuovi impianti cocleari ottici. Quest’ultimi trasformano i segnali sonori in segnali luminosi e dunque in luce.
Il vantaggio?
La luce a differenza della corrente riesce a propagarsi in un liquido con una precisione temporale e spaziale. Dei led trasmettono la luce ai neuroni cocleari circostanti generando una stimolazione precisa dei nervi della coclea e di conseguenza codificano il suono in maniera molto più adeguata. Il professor Moser si è avvalso dell’optogenetica, una tecnica che usa proteine non naturali e che si attivano colpiti dalla luce. In questo processo il sistema oggetto di studio si avvale anche di tecnica ingegneria genetica con vettori virali. Dall’incontro poi tra i professori Gorostiza e Moser, nasce l’idea di applicare la fotofarmacologia a tali impianti cocleari ottici, sostituendo perciò l’approccio genetico che ho descritto prima ad uno di tipo farmacologico con vari vantaggi del caso. Così nasce insieme a noi di Unimi l’idea di sviluppare la molecola che abbiamo chiamato TCPfast”.
Come entra in gioco in particolare la molecola, denominata TCPfast?
“TCPfast rappresenta l’evoluzione di altre molecole sviluppate dal nostro gruppo di ricerca a Barcellona. Tali molecole attivano i recettori ionotropici di glutammato che si trovano in varie aree del nostro organismo e anche nei recettori cocleari. Le caratteristiche della molecola sono diverse: la prima è che quando viene ‘colpita’ da luce blu si attiva mentre al buio si disattiva cambiando forma, i processi durano millesimi di secondi e cioè è importante se si vuole simulare a quello che avviene in maniera fisiologica. Infine TCPfast ha un ‘guinzaglio’ molecolare che gli consente attaccarsi in maniera permanente ai recettori di cui parlavo prima trasformandoli in fotorecettori.
– Quando sarà possibile passare alla pratica clinica e dunque per i pazienti sottoporsi a questi impianti cocleari di ‘nuova generazione’? E quali saranno i reali vantaggi per queste persone?
“E’ doveroso dire che questa ricerca è agli inizi per quanto i risultati siano molto incoraggianti. E’ difficile stabilire quando si arriverà ad una applicazione sull’uomo. Ci sono alcuni problemi da risolvere. Va migliorata la molecola TCPfast, è una molecola prototipo e contiene qualche difetto per l’uso clinico come ad esempio la sua durata d’azione è limitata nel tempo quindi il suo effetto svanisce nell’arco di alcuni minuti. Ad oggi non è chiaro quale sia la causa di tale limite. Stiamo lavorando ad alcune ipotesi ed il prossimo passo sarà quello di progettare e sintetizzare una nuova molecola i cui effetti durino per qualche ora in modo da poter limitare ad una somministrazione giornaliera. Gli effetti di ‘questa’ nuova molecola andrebbero ovviamente verificati nuovamente in vitro e vivo e sei risultati dovessero essere migliori rispetto a quelli ottenuti fino ad oggi si potrebbe passare a testare la molecola su mammiferi più complessi come i primati per poter infine all’uomo.
E’ evidente come la strada da percorrere sia ancora lunga ma le premesse sono buone. Infine i vantaggi consisterebbero nel migliorare la qualità dell’udito nelle persone affette da ipoacusia che ad oggi hanno già effettuato un impianto cocleare nelle quali l’udito perciò non è gravemente compromesso ma che con gli impianti elettrici possono acquisire solo un recupero parziale dell’udito. Mentre l’obiettivo degli impianti ottici cocleari è quello di permettere ai pazienti di apprezzare una conversazione anche in ambienti rumorosi e ascoltare una canzone”.