“Anna” e l’sos personale nei luoghi di cura. La sua proposta: rivedere i criteri d’ingresso
di Matteo Scardigli
Redazione Il Tirreno
GROSSETO. Scarse possibilità di carriera, ritmi usuranti e stipendi poco competitivi. La professione infermieristica attrae sempre meno, e sempre meno sono gli iscritti al corso di laurea.
Eppure c’è ancora chi sogna, sin dalla tenera età, di indossare il camice per aiutare il prossimo; chi si impegna per superare le proprie difficoltà, talvolta ritenute invalidanti, ma a quell’esame – malgrado il punteggio – rimane sempre dietro; fuori. E si domanda perché, se mancano gli infermieri e gli aspiranti tali, il dito del “decisore” non scorre oltre l’ultimo nome in graduatoria per raggiungere il lungo elenco dei non ammessi.
Un interrogativo tutt’altro che peregrino, soprattutto alla luce del precedente che ha destato scalpore sulla stampa nazionale appena pochi giorni fa: a Vicenza un risultato di 1 su 100 al test di ammissione a infermieristica che è valso comunque l’ingresso in facoltà.
Ed ecco che Anna (nome di fantasia) decide di raccontarsi: «Fin da quando ero bambina, ho sempre saputo che il mio destino era diventare infermiera. Nonostante la mia sordità bilaterale, non ho mai permesso che questa condizione definisse chi sono o quali sogni potessi realizzare. Al contrario, ha rafforzato la mia determinazione a dimostrare che la vera essenza di un’infermiera non risiede nelle capacità uditive, ma nel cuore, nell’umanità e nella dedizione verso chi ha bisogno di aiuto».
Nella sanità Anna è entrata comunque, come impiegata nel pubblico ma anche come volontaria in un’associazione di soccorso, di supporto a quegli infermieri dei quali desidera far parte con tutto il cuore. E poter vestire per la prima volta l’uniforme con le bande catarifrangenti «è stata una conquista enorme». Un traguardo tutt’altro che facile da raggiungere. «In molti mi hanno detto che non potevo fare l’infermiera perché sono sorda, tante volte mi sono sentita dire che “non è possibile”. Parole che ho scelto di ignorare perché la mia passione ha sempre prevalso su tutto alimentata dal profondo desiderio di poter fare la differenza nella vita delle persone, di esserci nei momenti più critici, quando la cura e la compassione possono cambiare il corso di una giornata, o addirittura di una vita», racconta.
Per l’ammissione, tuttavia, c’è da superare quell’esame: «Ho affrontato il test d’ingresso all’università più volte, ogni volta con rinnovata speranza e determinazione. Eppure, quest’anno in particolare, il test è stato incredibilmente difficile, formulato in modo tale da sembrare rivolto a candidati già laureati in scienze come biologia, chimica o fisica. Come molti altri aspiranti infermieri – aggiunge – mi sono preparata con dedizione, studiando le conoscenze di base. Ma purtroppo, il risultato è stato che molti di noi hanno ottenuto punteggi bassi; io stessa sono stata giudicata “non idonea” per pochi punti, un’etichetta che non rispecchia né le mie capacità, né la mia profonda vocazione».
L’ateneo aveva messo a disposizione poco meno di 200 posti, circa un sesto dei quali è rimasto scoperto. Un «vuoto» che ad Anna «fa male sapere, soprattutto quando ci sono aspiranti infermieri come me, pronti a colmare quelle lacune, desiderosi di mettersi al servizio del prossimo. Questi posti lasciati vuoti – ribadisce – non sono solo un’opportunità persa per noi candidati, ma rappresentano anche una mancanza per un sistema sanitario che ha un bisogno disperato di nuove forze».
Per inciso: se l’università ha stabilito una data soglia una ragione c’è. Ma è lecito porsi domande, e Anna mette le sue nero su bianco: «Qual è lo scopo di questo test? Stiamo cercando candidati perfetti su carta o stiamo cercando persone che con dedizione, impegno e umanità possono fare la differenza nella vita dei pazienti? Cosa si ottiene nel lasciare vuoti quei posti, sapendo che c’è un disperato bisogno di infermieri?».
Di qui, infine, l’appello al proprio ateneo: «Accogliere aspiranti infermieri come me, che portano con sé non solo la conoscenza, ma anche una passione inarrestabile, potrebbe fare una differenza inimmaginabile, sia per l’azienda sanitaria che per la salute dei pazienti. Lasciare quei posti vacanti significa lasciare che il sistema sanitario continui a barcollare sull’orlo del collasso. E mentre questo accade, chi soffre di più sono le persone che, in un momento di vulnerabilità, cercano una mano amica, un cuore che batte per loro».