La frase scelta da Marino Bottà in apertura di questa sua riflessione («Innovare non necessariamente significa scoprire cose nuove, innovare è spesso saper guardare il libro della realtà in modo diverso») ne fotografa al meglio l’opinione rispetto alla situazione attuale dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. «Non necessitano nuove leggi o ulteriori risorse economiche – conclude infatti -, serve unicamente un cambio culturale e la disponibilità dei servizi preposti»
Innovare non necessariamente significa scoprire cose nuove, innovare è spesso saper guardare il libro della realtà in modo diverso (Richard Roberts)
Spesso si sente dire che la Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.] «ha fatto il suo tempo», che «va cambiata», o che «la riforma fatta con il Jobs Act non ha portato cambiamenti, anzi ha peggiorato le cose» ecc. Mi chiedo però se quella Legge sia mai stata correttamente applicata, come sia stato attuato il principio del collocamento mirato, come sia stato affrontato il concetto di obbligatorietà, e ancora, come siano state semplificate le procedure burocratiche, come sia stata promossa e diffusa quella che doveva essere una cultura inclusiva, come i Servizi per il Collocamento Disabili si siano approcciati ai bisogni delle persone con disabilità e delle aziende, come si siano aggiornati rispetto ai cambiamenti sociali e del mondo del lavoro.
Ma come funziona il Collocamento Disabili? Le persone iscritte non sono “prese in carico” e accompagnate al lavoro dal Servizio Provinciale; l’Ufficio si occupa delle iscrizioni, delle sospensioni, delle graduatorie, degli avviamenti numerici ecc.; quindi, solo degli aspetti burocratico-amministrativi. La presa in carico è demandata, a titolo oneroso, ai Servizi Socio-Sanitari, alle Cooperative Sociali, agli Enti accreditati al lavoro, alle Agenzie per il Lavoro, alle Associazioni.
Il Collocamento Disabili, quindi, delega di norma le politiche attive per il lavoro a soggetti terzi che operano autonomamente. Tutti hanno conoscenza e coscienza dell’inadeguatezza del sistema che gestisce il mercato del lavoro e della necessità di riformarlo, ma gli anni passano senza alcuna significativa novità all’orizzonte. Vedremo cosa sortirà dall’attuale Governo e dal nuovo Ministero per la Famiglia e le Disabilità.
Non sono migliori, poi, nemmeno i rapporti con le aziende. La Legge 68/99 ha introdotto una serie di prescrizioni, adempimenti e istituti cui le aziende si devono attenere: prospetti informativi, compensazioni, esoneri, sospensioni, convenzioni ecc. Procedure rese maggiormente complesse dalle specificità provinciali e dal fatto che gli uffici preposti spesso si rifiutano di dare informazioni adeguate. Le imprese sono vissute unicamente come soggetti a cui imporre gli obblighi di legge e non come protagonisti delle politiche inclusive.
Per quanto poi riguarda il rapporto con le Cooperative Sociali di tipo B, esso è caratterizzato dalla difformità di relazioni e comportamenti. In certi territori i Consorzi delle Cooperative Sociali affiancano gli Uffici del Collocamento Disabili, in totale fusione operativa, a volte con connotazioni illiberali di tipo monopolistico; in altri, invece, non esiste alcuna forma di collaborazione.
Per ciò che concerne infine le Associazioni delle persone con disabilità, fatta eccezione per la loro poco significativa presenza nel Sottocomitato Disabili, organismo previsto dalla Legge 68/99, non esiste alcuna forma di rapporto operativo strutturato, anzi a volte vengono vissute come scomode e critiche presenze sociali. Ne consegue che esse sono costrette a rivolgersi ai Servizi del Collocamento Disabili con toni rivendicativi, in quanto escluse e deluse dai risultati; a volte, invece, stanche, abbandonano il tema dell’inclusione lavorativa o cercano di provvedere autonomamente all’inserimento dei propri associati.
Dal mese di gennaio del 2000, data di entrata in vigore della Legge 68/99, è cambiata la società, l’economia, il mondo del lavoro e il mercato del lavoro, ma non il Collocamento Disabili. Non si è pensato nemmeno ad un aggiornamento del personale. La cultura dell’inclusione lavorativa deve comunque passare dai Servizi Provinciali per il Collocamento; è quindi indispensabile promuovere ogni utile azione e collaborazione, per evitare che quei Servizi si cristallizzino in una rigida gestione burocratica che ci riporterebbe al superato Collocamento Obbligatorio.
Da spettatori più o meno critici, dobbiamo diventare protagonisti di una nuova cultura dell’inclusione socio lavorativa e di un nuovo welfare.
Purtroppo il DPR 469/99 e la Legge 68/99 non hanno stabilito le modalità di gestione del Collocamento Disabili. Il Ministero non ha mai avuto competenze in merito all’organizzazione e alla gestione dei Servizi Provinciali. Dal canto loro, le Regioni hanno avuto unicamente un ruolo di indirizzo. Di conseguenza le Province hanno costituito il Servizio secondo esperienze e indirizzi propri, convinte, in buona fede, di operare diligentemente ed efficacemente, senza alcun parametro di riferimento o confronto strutturato esterno.
Pertanto i Servizi per il Collocamento Disabili hanno continuato a lavorare in perenne coerenza con se stessi e il proprio passato, ignari o indifferenti verso quello che facevano gli altri, cosicché l’autoreferenzialità è diventata l’humus ideale su cui si sono sviluppati – spesso con una vita propria – all’interno dei Centri per l’Impiego. La loro anomalia costitutiva e alcune norme nazionali e regionali li hanno costretti a ritagliarsi uno spazio specifico. Solo ora la riforma delle Province ha imposto la revisione delle loro competenze e le Regioni sono state costrette a riesaminare e riorganizzare i Servizi Provinciali. Purtroppo ogni Regione sta procedendo autonomamente, confermando le difformità territoriali che hanno caratterizzato in passato il Collocamento Disabili e le diversità applicative delle norme in materia. Di conseguenza, le contraddizioni che erano in capo alle Province stanno di fatto passando in capo alle Regioni.
In buona sostanza, non possiamo aspettarci grandi novità e nemmeno la ventilata riforma dei Centri per l’Impiego, promessa dall’attuale Governo, porrà le basi per un reale cambio di rotta. Non sarà l’investimento di più risorse economiche a risolvere le contraddizioni che hanno pervaso da sempre gli uffici pubblici del mercato del lavoro.
Da tempo le politiche sociali tradizionali e quelle del lavoro sono in uno stato di crisi profonda, bisogna pertanto cambiare radicalmente le modalità di approccio al tema dell’inclusione lavorativa in coerenza con il mutato contesto sociale.
In realtà è sin dall’inizio del dopoguerra che il tessuto sociale e lavorativo è in rapida e continua trasformazione. Negli Anni Cinquanta lo sviluppo economico si fondava sul ruolo egemone delle grandi aziende, che avevano bisogno di manodopera scarsamente qualificata e facilmente reclutabile nella massa di lavoratori che abbandonavano le campagne alla ricerca di una migliore qualità di vita. Le persone con disabilità avevano scarse possibilità di accesso alle aziende e la quasi totalità di loro era occupata in attività agricole familiari e artigianali. I pochi che lavoravano nell’industria erano divenuti invalidi fisici per cause da lavoro o erano invalidi di guerra. La disabilità era sempre di tipo fisico e compatibile con l’ambiente di lavoro, poco ospitale per tutti. L’inserimento avveniva per un interessamento del parroco o di qualche autorità locale. L’inclusione socio-lavorativa si fondava su un atteggiamento di tipo pietistico e caritatevole.
Negli Anni Sessanta le cose cambiarono. L’economia era in forte espansione. Le persone con disabilità con adeguate possibilità lavorative potevano accedere al lavoro in fabbrica. La raccomandazione era la chiave d’accesso. In fabbrica, i lavoratori diventati invalidi durante il rapporto di lavoro e i nuovi arrivati venivano inseriti in reparti speciali creati appositamente per loro. L’approccio verso la disabilità era di tipo ghettizzante; si creavano reparti speciali, classi differenziali, istituti ecc.
L’avvento del Sessantotto, con il diffuso spirito egualitarista, spinsero il Legislatore a promulgare una legge a tutela del diritto al lavoro delle persone con disabilità. Arrivò così la Legge 482 del 1968, in cui veniva declinato l’obbligo, per le aziende con più di 35 dipendenti, di assumere il 15% di lavoratori con disabilità iscritti all’Ufficio per la Massima Occupazione e avviati numericamente. A fronte di una scopertura in obbligo, l’Ufficio inviava numericamente, all’azienda, la prima persona in graduatoria, prescindendo da qualsiasi valutazione di compatibilità.
La rigidità burocratica, amministrativa e impositiva vanificò la possibilità di una vera integrazione lavorativa. Attraverso un approccio ideologico si rivendicava un diritto costituzionale, creando così aspre contrapposizioni fra le parti.
Poco più di trent’anni dopo, il 1° gennaio del 2000, entrò in vigore la più volte citata Legge 68/99, che ribadendo l’obbligo per le aziende, ha finalmente introdotto il principio del collocamento mirato, con queste parole: «Per collocamento mirato dei disabili si intende quella serie di strumenti tecnici di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione di problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione».
Sempre la Legge 68 ha messo anche a disposizione delle aziende una serie di strumenti: compensazioni, convenzioni, esoneri, agevolazioni, sostegni economici e non, consentendo di rendere meno oneroso l’obbligo di inserimento.
A tutto ciò si è accompagnata una radicale riforma del Collocamento Disabili, che ha previsto la trasmissione delle relative competenze dal Ministero del Lavoro, alle Regioni e alle Province. Contestualmente, sul territorio sono nati e si sono sviluppati servizi promossi dai Comuni, dalle ASL e dalla Cooperazione Sociale, allo scopo di supportare l’integrazione socio-lavorativa delle “fasce deboli” del mercato del lavoro.
Purtroppo, nonostante le premesse, i risultati non sono stati soddisfacenti. Come già accennato, la maggior parte dei Servizi Provinciali preposti ha mantenuto il vecchio approccio burocratico-amministrativo, nei confronti delle persone con disabilità da una parte, delle aziende dall’altra. Gli strumenti e i sostegni previsti non hanno avuto una diffusione uniforme sul territorio nazionale e la complessità delle procedure ne ha spesso scoraggiato il ricorso. La crisi economica, poi, ha ulteriormente compromesso il potenziale occupazionale. Nel 2015, infine, si è giunti alla necessità di effettuare un’ampia riforma della Legge 68, che tuttavia non ha sortito i risultati sperati.
Ora ci troviamo in una nuova fase. I cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e la crisi del welfare impongono una riforma radicale del sistema per l’occupazione delle persone con disabilità. Purtroppo la politica e le istituzioni sono in forte ritardo, e nemmeno i soggetti sociali interessati, i servizi pubblici e privati, le associazioni, le cooperative sociali, le forze sindacali e i rappresentanti del mondo industriale hanno una chiara visione di quello che si deve fare. Ne consegue un’empasse sociale che, nel prossimo futuro, penalizzerà innanzitutto le persone disabili con disabilità complesse.
In questo contesto sopravvive solo lo spirito volontaristico di molti soggetti che operano a livello territoriale e che cercano di sopperire alle carenze del welfare pubblico. Certo, negli ultimi anni ci sono stati dei cambiamenti, si è cercato di favorire l’inclusione lavorativa attraverso la “presa in carico” della persona, il progetto individualizzato, il percorso di accompagnamento al lavoro e di mantenimento. E i Servizi Territoriali ricercano forme di collaborazione con il Collocamento Disabili, mentre le aziende si stanno maggiormente aprendo al problema; ma purtroppo i risultati continuano ad essere insoddisfacenti.
Che fare, dunque? La prima cosa da fare è rivedere l’organizzazione dei servizi e le reti che operano a favore dell’inclusione socio-lavorativa. Vanno poi riviste le modalità, le procedure e gli strumenti utilizzati. E ancora, bisogna operare un cambiamento radicale nell’approccio stesso al tema del collocamento lavorativo delle persone con disabilità. L’azienda è sempre stata vissuta come “soggetto passivo”, contrario all’inserimento dei disabili e quindi soggetto obbligato a farlo per legge. Forse, invece, sarebbe meglio considerare l’impresa come un coprotagonista indispensabile per l’inclusione lavorativa. Partire quindi dall’azienda, dall’analisi del contesto produttivo, dai suoi bisogni, dai suoi problemi e difficoltà, dalle sue esigenze, dal personale impegnato, per giungere all’inserimento lavorativo. Comprenderne il linguaggio e la realtà attraverso un rapporto diretto e continuo. Comprendere i bisogni delle imprese per poter avere una risposta ai bisogni occupazionali delle persone con disabilità. Forse in questo modo riusciremo a coinvolgerle e a renderle maggiormente ricettive. Tutto questo è possibile e già sperimentato con successo: non necessitano nuove leggi o ulteriori risorse economiche, serve unicamente un cambio culturale e la disponibilità dei servizi preposti.
Se non si realizzerà questo cambiamento, continueremo a sentire, dai soggetti pubblici preposti, che le cose vanno bene, che i risultati sono positivi, che sono già state attuate adeguate politiche attive, che gli inserimenti lavorativi sono in crescita e così via, mentre contemporaneamente ascolteremo dai disoccupati e dalle associazioni delle persone con disabilità la rappresentazione di un quadro ben differente.
Non è quindi la legge che non funziona, ma è il sistema che la gestisce che non va! Riprendiamo il cammino.