Il bambino eritreo è sordo, la scuola si mobilita per lui

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L’accoglienza diventa più facile nel paese dove fin da bambini si parla la lingua silenziosa dei segni.

Così un mese dopo l’arrivo in Italia dai campi profughi dell’Etiopia, una famiglia eritrea considerata vulnerabile – madre e 5 figli piccoli di cui uno sordomuto – ha cominciato una nuova vita nel profondo nord con buone probabilità di integrazione. La mamma ha un nome che tradotto dal tigrino significa Felicità e così la chiameremo. Ha vissuto nove anni in un campo profughi etiopico dopo la fuga con tre figli e il marito dal villaggio natale nel centro rurale dell’Eritrea fino all’Etiopia.

Quando vi è arrivata, lasciandosi alle spalle la dittatura e la miseria dello stato caserma di Isaias Afewerki, c’era già il figlio che non sentiva i suoni e i rumori. Oggi ha 12 anni e due occhi da cerbiatto su un visetto furbo e sorridente incorniciato dai capelli crespi,. Ma nel nulla sabbioso del campo profughi trovargli cure e sostegno era impossibile, l’istruzione e lo sviluppo gli erano preclusi. La grande occasione per mandarlo scuola e dargli un futuro è arrivata con il corridoio umanitario aperto dalla Cei con il governo italiano in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio.

L’Ong Gandhi, che da anni seguiva il caso di Felicita e dei suoi cinque figli maschi – il più grande ha 15 anni, gli altri 14, 9 e sei anni oltre al ragazzo sordo – li ha segnalati alla Caritas italiana, che realizza il progetto. Serviva una comunità che potesse seguire un problema così complesso. Daniele Albanese, operatore biellese che sta lavorando con la Caritas nazionale alla realizzazione del corridoio, ha creato il contatto con Cossato, comune di 15 mila anime in provincia di Biella dove da 20 anni l’istituto comprensivo ha avviato un progetto scolastico all’avanguardia in Italia.

Qui dalla materna agli alunni viene insegnata, con un programma speciale finanziato soprattutto da privati (fondazioni bancarie come la Cassa di risparmio di Biella e Crt,) e dalla Regione Piemonte, anche la Lis, la lingua italiana dei segni, utilizzata per comunicare dalle persone con problemi di sordità. Così, dopo lo sbarco a Fiumicino lo scorso 27 febbraio e l’arrivo a Cossato, Felicita e i suoi bambini sono andati a vivere in un tranquillo appartamento in periferia donato da una benefattrice e, dopo le visite mediche di rito, hanno iniziato a frequentare le diverse classi dell’istituto paritario approcciando la nostra lingua e, in parallelo, quella dei segni. La Caritas diocesana per un anno fornisce loro cibo, indumenti e cure e paga le bollette. La madre ha sottoscritto un contratto in cui si impegna a studiare l’italiano e a trovare lavoro.

A fine aprile verrà esaminata la loro domanda di asilo. Una famiglia italiana di origine eritrea non li lascia soli, poi ci sono le lezioni di italiano fatte da un mediatore culturale. Impresa non facile dato che la donna e i figli parlano solo tigrino. «L’impatto è stato forte – spiega la mamma eritrea, 33 anni, mentre in casa i figli tornati da scuola mangiano spaghetti – e abbiamo nostalgia delle persone lasciate in Etiopia. Ma ora la vita è qua, è tutto nuovo e dobbiamo abituarci».

L’altro polo della rete è la scuola dove i ragazzi hanno trovato un ambiente aperto. Li aiuta a rompere la barriera comunicativa la lingua dei segni, insegnata anche a chi sente per rafforzare le competenze linguistiche. Le famiglie si trasferiscono da tutta Italia per iscrivere i figli sordi all’istituto di Cossato. Che ha davvero preso a cuore la vicenda. «Siamo onorati della scelta della Caritas – spiega la dirigente scolastica Gabriella Badà – con loro abbiamo sensibilizzato i bambini della secondaria, della primaria e della materna sull’arrivo dei nuovi compagni. Li abbiamo affidati a insegnanti di sostegno, gradualmente si inseriranno». «La Caritas – aggiunge Roberta Gherardi, referente del progetto – ha realizzato un video dal campo profughi che abbiamo fatto vedere ai più grandi, poi ha illustrato la situazione dalla quale provenivano ai più piccoli. Li conoscevano già, insomma e al loro arrivo abbiamo organizzato una festa per accoglierli in parrocchia ».

E le famiglie come hanno reagito? «Bene, questa è una realtà preparata all’accoglienza e alla solidarietà– precisa Anna Ronchi dell’associazione ‘Vedo voci’, che dal 1995 riunisce i genitori dei bambini sordi – e tra poco inizieremo con loro il doposcuola cui partecipano tutti i ragazzi ipoudenti della scuola, ma non solo». Non c’è stato nessun trauma per il passaggio dalla scuola del campo profughi africano a quella italiana, con orari e regole. «Sono stati presi sotto l’ala protettrice dei compagni – puntualizza Laura Arietti, altra referente del progetto Lis – soprattutto dai sordi. E gli eritrei sono entusiasti, vogliono fermarsi oltre l’orario per imparare l’italiano e la Lis e superare la barriera comunicativa». E la lingua che nasce dalle mani è usata anche nella parrocchia di Gesù Nostra Speranza per il catechismo e la celebrazione eucaristica. «La lingua dei segni – racconta il parroco don Alberto Boschetto – ha fatto crescere la comunità.

Abbiamo aperto una casa per l’accoglienza delle donne in difficoltà, ora la nuova sfida è l’integrazione dei migranti. Il modello scelto dalla Chiesa italiana dell’accoglienza diffusa sui territori credo sia giusto» Il cammino è lungo, chissà che la forza della lingua silenziosa non riesca ad abbattere muri e parlare anche a cuori diventati sordi. ri

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