Intervista a Stefano Zanut, architetto, vigile del fuoco. Un ambiente progettato male può essere disabilitante e incidere anche sulla sicurezza delle persone che lo utilizzano: “L’inclusione non deve essere un obbligo ma la modalità di relazionarsi con gli altri nella vita quotidiana”
Rendere accessibili una casa, un ufficio o un intero edificio non vuol dire “soltanto” garantire l’ingresso e la piena fruibilità degli spazi, ma prevedere anche che, in situazioni di emergenza, da quell’ambiente tutti possano uscire velocemente e in autonomia o, quanto meno, facilitando l’opera di chi è chiamato a prestare soccorso. “Non ci può essere sicurezza senza considerare l’inclusione, ma non ci può essere neanche inclusione senza sicurezza”, dice Stefano Zanut, architetto, vigile del fuoco di Pordenone e socio di Cerpa Italia onlus. “Quando parliamo di sicurezza, parliamo del bene primario dell’uomo, ovvero la vita – aggiunge -: se dobbiamo tutelare la vita, dobbiamo pensare alle persone reali e alle loro vere capacità di interagire con il mondo”.
In che modo la sicurezza può essere inclusiva?
Le faccio un esempio: quando si progetta una scala antincendio bisogna pensare che possa essere usata da tutti. Ma come fare nel caso di una persona in sedia a ruote, di un anziano, di un bambino o di una donna in stato di gravidanza, che potrebbero avere difficoltà? Inoltre durante un’emergenza tutte le persone possono incorrere in condizioni anomale, certamente diverse dalla quotidianità, con difficoltà nell’utilizzare le scale che prima non hanno. Per compensare questi aspetti si potrebbero predisporre nell’ambito della scala appositi spazi dove chi si trova in difficoltà possa fermarsi in sicurezza, i cosiddetti ‘spazi calmi’. Un altro esempio? Se una segnaletica non è chiara, è posizionata male o è mal illuminata, le persone potrebbero non essere capaci di leggere le indicazioni per raggiungere le uscite. Se ne potrebbero fare molti altri di esempi, ma la sostanza rimane la stessa: un ambiente progettato male può diventare ‘disabilitante’ e incidere anche sulla sicurezza delle persone che lo utilizzano.
Qual è la situazione in Italia? Si presta abbastanza attenzione al tema?
L’attenzione si sta indubbiamente diffondendo. In realtà a livello legislativo questa attenzione c’è almeno dalla fine degli anni ‘80, ovvero dall’emanazione del decreto 236/89: in quel contesto il termine evacuazione andava di pari passo con quello di accessibilità. Questi concetti si sono poi evoluti con le norme di prevenzione incendi, fino al più recente decreto dell’agosto 2015, che definisce l’inclusione un principio cardine per la progettazione della sicurezza. Anche sul tema dell’emergenza è stato detto e fatto molto, a partire dalle norme sulla sicurezza degli ambienti di lavoro. Il problema, però, è che spesso si tende a pensare all’emergenza solo dopo che questa si è verificata, quando invece sarebbe necessario pianificare strategie e risposte molto prima. Patrick Lagadec, sociologo svizzero ed esperto di pianificazione dell’emergenza, diceva: ‘Per gestire una crisi occorre sapere imparare rapidamente. Per imparare rapidamente nel corso di una crisi è necessario aver imparato molto prima’. È difficile non concordare con lui.
Quali sono i principali aspetti che nelle situazioni di emergenza possono complicare la messa in sicurezza, specie delle persone disabili?
Con il termine emergenza cerchiamo di rappresentare una situazione complessa, dove le condizioni ordinarie possono essere profondamente compromesse. Si pensi solo alle immagini dei terremoti che sono accaduti proprio in questi giorni in Giappone e in Ecuador. In questi casi le modalità d’intervento devono essere calibrate all’evento, all’ambiente che si è determinato e alle persone coinvolte, tenendo presente che sono quelle più deboli a risentirne maggiormente. Giusto per fare un altro paio di esempi: uno studente su sedia a ruote non può andare sotto al banco in caso di terremoto, un disabile cognitivo non sempre riesce a riconoscere con consapevolezza il pericolo e rispondere nel modo più opportuno. In queste situazioni le conseguenze dipendono in parte dalle modalità con cui reagiscono le persone, dall’altra come l’ambiente favorisce la loro protezione. In quest’ultima circostanza è fondamentale il ruolo giocato da una corretta progettazione, mentre nel primo caso molto dipende dall’educazione e dalla cultura di ognuno. Tutti dovremmo sapere cosa fare in caso di emergenza, per questo è necessario parlarne per trasformare la necessità in strumento di sicurezza e creare cultura sull’argomento.
L’emergenza non si esaurisce quando finisce un incendio o un terremoto. Come dovrebbe essere il soccorso?
I soccorritori, ma più in generale tutti quelli che in quei momenti si trovano in relazione d’aiuto con le persone in difficoltà, devono comportarsi considerando con attenzione le specifiche necessità di chi hanno di fronte: questo è ‘soccorso inclusivo’. Per fare un altro esempio: l’ultima persona estratta viva dopo il terremoto dell’Aquila è stata una studentessa non udente, ferita gravemente dal crollo di un edificio e che non poteva sentire i richiami dei soccorritori. I vigili del fuoco che si sono infilati sotto le macerie, hanno capito che era viva solo quando uno di loro le ha illuminato la faccia e ha percepito un leggero movimento degli occhi. I vigili del fuoco sanno bene cosa fare in situazioni simili, ma bisognerebbe spiegarlo anche a tutti i cittadini, a partire dalle famiglie e dagli operatori che lavorano con le persone disabili, dando loro istruzioni semplici su come comportarsi in queste situazioni, ‘anche’ nel mettersi in relazione con gli eventuali soccorritori.
Che servirebbe per diffondere la cultura della sicurezza inclusiva?
Come vigili del fuoco stiamo facendo molto, ma molto resta ancora da fare. Abbiamo elaborato, anche con il contributo delle associazioni, le linee guida per il soccorso alle persone disabili, che attualmente sono in fase di revisione. Facciamo formazione nelle aziende e ai professionisti. Onestamente, penso che siamo tra i pochi al mondo ad aver studiato bene il tema della gestione dell’emergenza con persone che hanno specifiche necessità. Da qualche tempo abbiamo attivato anche uno specifico ‘Osservatorio sui temi della sicurezza e del soccorso alle persone con esigenze speciali’. Nel 2014, in occasione del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea, sono state organizzate due iniziative di valenza europea su questi argomenti, una a Venezia sul progetto inclusivo per l’accessibilità e la sicurezza, l’altra a Roma sul soccorso a persone con esigenze speciali. A Pordenone stiamo anche sviluppando piani di emergenza che potremmo definire personalizzati, e per questo inclusivi, con alcune associazioni: l’idea è che se diamo alle persone le conoscenze per tutelarsi, per noi sarà anche più facile aiutarle. Con la Fondazione Bambini e autismo abbiamo organizzato un’iniziativa dal titolo Ti aiuto a soccorrermi, mentre con l’associazione Casa al sole abbiamo affrontato le tematiche dell’autonomia abitativa in sicurezza delle persone con sindrome di Down. Un’altra importante iniziativa è stata con il Centro Progetto Spilimbergo, in cui persone con disabilità da mielolesione hanno insegnato ai vigili del fuoco le tecniche di trasporto più idonee in caso di necessità.
Diceva, però, che c’è ancora molto da fare. A che cosa pensa?
La parola magica, secondo me, è ‘cultura inclusiva’. Dobbiamo cominciare a sentire l’inclusione non come un obbligo da soddisfare, ma come una modalità diffusa di comportarsi e relazionarsi con gli altri nella vita quotidiana. Su questi argomenti bisogna parlare, condividere idee ed esperienze, fare dialogare i mondi della progettazione, della sicurezza e della disabilità.
(Manfredi Liparoti)
(20 aprile 2016)