Maria Catrambone perse il figlio, suicida perché vittima di bullismo: «Dopo 20 mesi non ho ancora risposte dalla giustizia». Ha fondato l’associazione Miky boys con cui gira le scuole d’Italia. A Rivoli un ricordo di Michele
TORINO – Maria Catrambone ha perso il figlio Michele (Ruffino) quando aveva solo 17 anni. Il ragazzo si è tolto la vita il 23 febbraio 2017: era vittima di bullismo. Il 21 ottobre sarebbe stato il suo compleanno. Mamma Maria, da quando lo ha perso, ha fondato l’associazione Miky boys. Sabato, a Rivoli, i volontari hanno ricordato Michele e spiegato al pubblico i progetti futuri.
Maria Catrambone, com’è morto Michele?
«Mio figlio non tollerava più le prese in giro dei suoi compagni del Colombatto. Camminava male, in classe lo chiamano «handicappato», o gli dicevano “devi morire”. Nessuno lo ha aiutato, nemmeno gli insegnanti. Non ce l’ha più fatta».
Com’è la sua vita oggi?
«Ho deciso di farmi forza, di trasformare il dolore in qualcosa che possa aiutare i ragazzi come mio figlio. Michele mi ha dato una missione. Giro l’Italia: vado nelle scuole e nei teatri e racconto cosa è accaduto. Sto per partire per Monza, una mamma mi ha cercata».
Per cosa?
«Ha una figlia di 11 anni. La gente si stupisce, ma i bulli colpiscono già alle elementari, anzi, alla materna. La bimba è sorda e la stanno massacrando. Non solo i compagni, ma anche la maestra. Lei non capisce una frase e l’insegnante le chiede: per caso sei sorda? La mamma mi ha chiesto di venire a scuola a parlare: lo faccio per Michele».
A che punto è l’inchiesta sulla morte di suo figlio?
«È ferma. Dopo 20 mesi non ho ancora risposte dalla giustizia. Eppure persino dopo la morte Michele è stato preso in giro, sui social. Ho denunciato tutti, scuola compresa e un ragazzino che rideva di lui al suo funerale. Per i bulli di mio figlio non voglio il carcere, ma la rieducazione. C’entrano anche i genitori, che non educano più perché è più comodo dare un tablet in mano ai figli. Bisogna formare loro per primi. Mi dicevano che il problema era di Michele, che erano solo ragazzate».
Cosa risponde, a chi dice che sono cose da ragazzi?
«Ai giovani dico che si inizia sempre così, da una bravata. C’è poi una cosa che sottolineo sempre: quando si è in gruppo bisogna ridere tutti insieme. Se uno non ride, ci di deve fermare per chiedersi: cosa stiamo sbagliando? Il bullo da solo non è nessuno, il branco lo fa sentire tale. Il bullizzato non è debole, lo sono quelli del gregge, che si mettono col più forte perché hanno paura di finire male.
A tutti poi, ripeto: parlate. Con la polizia postale, la municipale, la dirigenza, parlate anche da anonimi».
https://torino.corriere.it