Non possono quasi mai giocarci e vengono fortemente indirizzate verso il softball, senza alcuna ragione logica o pratica
Il baseball è uno degli sport più popolari e radicati nella cultura degli Stati Uniti, eppure ancora oggi solo gli uomini possono ambire a giocarlo ad alto livello. Non esiste infatti un campionato professionistico femminile, e non ci sono nemmeno squadre liceali o universitarie femminili. Per le ragazzine che hanno cominciato a praticarlo, a un certo punto le alternative sono sostanzialmente due: smettere o passare al softball, che non è proprio la stessa cosa.
«Chiunque conosca i due sport sa che non sono equivalenti. Sono entrambi sport fantastici, ma la nostra cultura ha accettato la falsa equivalenza tra i due per non dover mai affrontare il problema che le donne vogliono giocare a baseball, e dovrebbero poterlo fare», ha detto Leslie Heaphy, co-autrice di Encyclopedia of Women and Baseball, in un lungo articolo sulla questione scritto da Kaitlyn Tiffany sul magazine The Atlantic.
Il softball si gioca con una palla diversa (più grande), che viene lanciata in modo diverso (dal basso invece che dall’alto), su un campo più piccolo, e le partite sono un po’ più semplici e veloci; quello che giocano nella recente serie animata della Pixar Win or Lose è softball, per esempio. Fu inventato nel 1887 a Chicago come alternativa indoor al baseball, quando l’inverno rendeva proibitivo giocare all’aperto, ma con gli anni fu incoraggiato e accettato come uno sport praticabile dalle donne, alle quali invece il baseball fu quasi del tutto precluso.
Oggi il softball si gioca molto anche con squadre miste, formate quindi da donne e uomini, a livello sia amatoriale sia agonistico. «Le donne giocano praticamente tutti gli sport mai inventati, anche quelli strambi. Per ragioni non ovvie né pratiche o logiche, è permesso loro amare il baseball, ma quasi mai giocarlo. Non possono giocare al gioco americano per eccellenza», si legge ancora sull’Atlantic.

Il movimento di lancio nel softball è molto diverso e va dal basso verso l’alto (Brian Bahr/Getty Images)
Ultimamente un po’ di cose stanno cominciando a cambiare. Nel 2026 dovrebbe iniziare un campionato professionistico femminile, la Women’s Pro Baseball League, e alcune squadre come i Boston Red Sox e i New York Yankees organizzano fantasy camp pensati appositamente per le donne; i fantasy camp sono programmi in cui tifosi e tifose si allenano con vecchi giocatori della Major League Baseball (MLB) e partecipano a un torneo.
Un articolo uscito da poco su The Conversation e intitolato Le donne rivendicano il loro posto nel baseball ha fatto notare che nel 2024 il 39 per cento degli spettatori alle partite della MLB (il principale campionato maschile) era composto da donne, e che stanno molto aumentando le donne che hanno ruoli nel baseball professionistico e nuovi percorsi che consentano alle giovani di giocarci. Per il momento comunque, si legge anche su The Conversation, «la maggior parte delle ragazze viene incoraggiata a passare al softball se vuole ottenere una borsa di studio universitaria. Se vogliono continuare a giocare a baseball, devono confrontarsi costantemente con ostinate convinzioni culturali e preconcetti che le vorrebbero invece impegnate nel softball».
La storia e le differenze tra baseball e softball
In realtà le donne hanno giocato a baseball sin dagli inizi: già a fine Ottocento c’erano alcune squadre solo femminili, e durante la Seconda guerra mondiale, mentre molti giocatori erano impegnati al fronte, fu fondata la prima lega professionistica femminile, l’All-American Girls Professional Baseball League. Andò avanti dal 1943 al 1954, contribuendo a far crescere l’interesse delle donne per il baseball, e fu raccontata nel film del 1992 A League of Their Own (in italiano Ragazze vincenti) e più di recente nell’omonima serie tv prodotta da Prime Video. La presenza delle donne nello sport statunitense, e in particolare nel baseball, fu però quasi sempre marginale e marginalizzata almeno fino al 1972.
Quell’anno infatti fu approvata una legge federale (il Title IX) che vietava la discriminazione di genere nei programmi educativi e scolastici finanziati dal governo federale. Fu un passaggio cruciale per lo sport femminile negli Stati Uniti, perché in sostanza obbligò i licei e le università ad avviare programmi e borse di studio con parità di accesso per ragazzi e ragazze, che da quel momento cominciarono a praticare vari sport con maggiore costanza e soprattutto in modo più strutturato e professionale.
In quello stesso anno Maria Pepe, una dodicenne del New Jersey, provò a entrare negli Young Democrats, una squadra della Little League, il principale circuito di tornei giovanili di baseball, dal quale le ragazze erano state ufficialmente escluse nel 1951. Pepe superò i provini e giocò come lanciatrice (pitcher) per tre partite, fino a quando alcuni genitori segnalarono la cosa gli organizzatori della Little League, i quali minacciarono di escludere la squadra dalla lega. Pepe fu costretta quindi a smettere, ma la National Organization of Women, una delle principali organizzazioni femministe negli Stati Uniti, fece causa alla Little League per discriminazione di genere.
La Little League per difendersi usò vari argomenti controversi, se non proprio falsi, sostenendo addirittura che giocare a baseball aumentasse il rischio di cancro al seno e facendo così capire quanto pretestuosa e profonda fosse l’avversione alla presenza delle donne nel baseball. Due anni dopo, quando Pepe era ormai troppo grande per giocare in quella squadra, una giudice diede ragione a lei e alla National Organization of Women: la Little League, dopo aver perso anche in appello, fu quindi obbligata ad aprirsi alla partecipazione femminile. Il 20 aprile 1974, venti giorni dopo il verdetto, Elizabeth Osder diventò la prima giocatrice ammessa regolarmente a una partita di Little League.
L’ostracismo nei confronti delle donne però continuò nonostante questa sentenza e l’approvazione del Title IX, anzi per il baseball quella legge paradossalmente ebbe effetti opposti rispetto agli altri sport, perché tutte le istituzioni scolastiche puntarono su programmi di softball per le ragazze (equiparandolo al baseball per i maschi), che quindi continuarono a non trovare sbocchi nel baseball una volta uscite dalla Little League.

Maria Pepe in una foto d’archivio (Bettmann/Getty Images)
Il softball femminile diventò sempre più competitivo e seguito, a scapito però del baseball. Tra il 1992 e il 2008, e poi di nuovo nel 2020, i due sport furono ammessi alle Olimpiadi: nel torneo femminile si giocò a softball, in quello maschile a baseball. Solo di recente negli Stati Uniti si sta muovendo qualcosa: la creazione di una lega professionistica femminile, che nei piani iniziali comprenderà per il momento sei squadre del nord-est degli Stati Uniti, sarà un passaggio importante a livello soprattutto simbolico.
A livello pratico le novità più importanti hanno a che fare con la creazione di borse di studio universitarie per le ragazze che giocano a baseball, perché le poche che riescono a proseguire spesso giocano in squadre maschili. Ci sono anche progetti di inclusione portati avanti da associazioni come Baseball For All, che organizza tornei in tutti gli Stati Uniti a cui possono partecipare anche le ragazze e che tiene corsi per aspiranti giocatrici e allenatrici. È un cambiamento insomma che dovrà partire dal basso, e per cui servirà ancora tempo, secondo Tiffany.