Gli Oscar sono sempre meno statunitensi

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L'assegnazione del premio Oscar al film Parasite nel 2020. (CRAIG SJODIN via Getty Images)

Da una decina d’anni l’Academy sta aumentando i suoi membri in modo da includere sempre più europei e asiatici, e le candidature lo dimostrano

Negli ultimi dieci anni è molto aumentato il numero di film candidati o vincitori di un premio Oscar che non sono americani e in certi casi non sono nemmeno in lingua inglese. Al di là della categoria Miglior film internazionale, dedicata ai film in altre lingue, sono comparse produzioni europee e asiatiche in tutte le altre categorie, e con sempre maggiore visibilità. È il risultato di una politica di espansione dei membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’ente che organizza gli Oscar e produce la serata di premiazione, che ha programmaticamente allargato il numero dei suoi membri, e quindi dei votanti, per rispondere all’accusa di essere troppo omogeneo nel corpo votanti e quindi nei film e nei professionisti considerati.

Nel 2012 un articolo del Los Angeles Times spiegava come i membri dell’Academy all’epoca fossero 5.765, il 77% dei quali maschi e il 94% bianchi. L’età media dei votanti era di 62 anni e solo il 14% aveva meno di 50 anni. Alcune sezioni, come quella dei produttori e quella degli sceneggiatori, all’epoca erano bianche al 98%. Altre, come quella di chi lavora agli effetti visivi o alla fotografia, erano composte al 90% da uomini. Solo 500 membri provenivano da fuori degli Stati Uniti ed erano per metà britannici, seguiti principalmente da canadesi (50) e australiani (45), dunque occidentali e anglofoni. I successivi paesi stranieri più rappresentati erano Francia e Italia, non casualmente anche quelli con più nomination al premio per il miglior film straniero.

Era infatti normale che la composizione fosse questa, poiché i membri dell’Academy sono le persone che sono state nominate almeno una volta per un Oscar. L’articolo del Los Angeles Times fu stimolato, tra le altre cose, dalla protesta di alcuni attori, tra cui Samuel L. Jackson, dopo la cerimonia dell’anno precedente, in cui nessuna delle personalità chiamate ad annunciare i vincitori sul palco era afroamericana.

Questa composizione si è sempre riflessa nei vincitori e negli sconfitti della cerimonia. Solo due anni prima un film molto istituzionale e tradizionale come Il discorso del re ne aveva battuto uno più moderno, originale e in linea con un gusto giovane, The Social Network. Già nel 2012 però si cominciò a vedere un annuncio del cambiamento che sarebbe arrivato. A vincere molti dei premi più importanti quell’anno fu The Artist, un film francese, diretto da Michel Hazanavicius e interpretato da Jean Dujardin e Bérénice Bejo. Era un film senza dialoghi, fatto per imitare i film muti, e raccontava una storia di Hollywood ambientata negli anni ’20. Era la cosa più vicina a un film americano che non venisse dall’America. Fu inoltre il primo film non in inglese (in teoria, visto che era senza dialoghi) a vincere l’Oscar per il Miglior film.

Negli anni successivi la questione della rappresentazione, e in particolare della scarsa considerazione per attori, registi e tecnici afroamericani, è diventata sempre più importante fino a quando nel 2015 in molti decisero di protestare online usando l’hashtag #OscarsSoWhite.

Fu l’inizio di un’opera di internazionalizzazione del premio e quindi anche di diversificazione. Nei dieci anni successivi, per cambiare la composizione dei suoi votanti e non potendo escludere nessuno dei suoi membri, l’Academy ha aumentato drasticamente il loro numero di anno in anno, scegliendo nuovi membri e invitandoli a far parte del corpo votante, con grande attenzione a criteri di inclusività. Oggi i votanti sono circa 10.700 e non solo la composizione è etnicamente molto più varia (oltre a vantare molte più donne), ma il 20% di questi non risiede negli Stati Uniti. La maggior parte di questi nuovi votanti non americani proviene dall’Europa e una parte più piccola dall’Asia.

L’anno scorso si è toccato il record non solo per il numero di voti inviati (non tutti i votanti effettivamente si ricordano o vogliono votare), ma anche per il numero di paesi da cui sono arrivati: 93, quattordici in più rispetto all’anno precedente. Anche per questo, tra i 10 nominati per la categoria Miglior film ben due non erano americani (Anatomia di una caduta e La zona d’interesse), cosa mai accaduta prima. I registi di quei film, Justine Triet e Jonathan Glazer, furono anche nominati per la Miglior regia, senza contare le molte altre nomination tecniche ottenute da film non americani: il film cileno El Conde fu tra i nominati per la Miglior fotografia e quello argentino La società della neve tra quelli nominati per il Miglior trucco.

Quest’anno la situazione è molto simile: ci sono di nuovo due film stranieri in gara per il Miglior film (Emilia Pérez di Jacques Audiard, francese, e Io sono ancora qui di Walter Salles, brasiliano) e moltissime nomination sono state ottenute da persone che hanno lavorato a questi due o ad altri film non americani, come la regista Coralie Fargeat per The Substance o il cartone animato lettone Flow, nominato non solo come Miglior film internazionale, ma anche come Miglior film d’animazione.

Il voto europeo quindi, pur pesando solo per il 20%, è molto compatto, cosa che lo rende una forza con la quale gli Oscar stanno imparando ad avere a che fare. Nel 2018 per la prima volta un film non americano fu un serio contendente nella categoria Miglior film, cioè Roma di Alfonso Cuarón, mentre nel 2019 il voto non statunitense sostenne la campagna vittoriosa di Parasite, primo film (parlato) non americano a vincere l’Oscar per il Miglior film.

La vittoria di Parasite (distribuito da NEON, società di distribuzione americana specializzata nella valorizzazione dei film stranieri) fu uno spartiacque, dopo il quale molti altri distributori hanno avuto il coraggio di ipotizzare campagne importanti per i loro film non americani. Questo ha portato alle nomination di Thomas Vinterberg come Miglior regista per Un altro giro o di Ryūsuke Hamaguchi, sempre per la regia, con Drive My Car. Anche la decisione di Netflix quest’anno di acquistare un film francese, cioè Emilia Pérez, per la distribuzione americana e di investirci per vincere degli Oscar, è figlia di questa consapevolezza. E Emilia Pérez sarebbe probabilmente riuscito a vincere anche premi importanti se non ci fossero stati diversi problemi con la campagna promozionale e la sua protagonista.

Questo non è un effetto collaterale, ma uno degli obiettivi dell’Academy ,che per rispondere alle critiche di scarsa inclusività e poca diversità ha deciso di diventare un’organizzazione mondiale e non più solo americana. Anche per questo la categoria Miglior film straniero è diventata da qualche anno Miglior film internazionale e anche per questo l’ente ha cominciato a incrementare le sue attività nel corso dell’anno, come la promozione dei film vincitori, la creazione di musei e la divulgazione della cultura cinematografica in sempre più paesi del mondo.

A testimonianza della nuova rilevanza del voto dei membri del resto del mondo, e in particolare dell’Europa, sempre più campagne Oscar prevedono un tour nei paesi europei. Quest’anno sono venuti in Italia sia il cast che il regista di A Complete Unknown, sia il regista e la protagonista di Emilia Perez. Hanno promosso l’uscita nei cinema italiani dei loro film, ma sono venuti nel periodo cruciale delle votazioni per le nomination e oltre agli impegni pubblici hanno anche introdotto e assistito delle proiezioni speciali fatte per i membri italiani dell’Academy.

Infatti le divisioni nazionali delle grandi major (come Warner, Netflix, Universal o Disney) adesso organizzano proiezioni dei loro film in gara appositamente per i membri dei loro paesi. Tuttavia, i voti non americani raramente vanno a film americani e tendono a prediligere quei film scoperti e valorizzati nei festival europei più importanti, come Cannes o Venezia, che non a caso sono sempre più i punti di partenza delle campagne Oscar e gli eventi in cui le distribuzioni vogliono portare i loro film per testare il potenziale da premi. Quest’anno sono usciti da Cannes AnoraThe Substance ed Emilia Pérez, mentre a Venezia sono stati lanciati The Brutalist e Io sono ancora qui.

Redazione il Post

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