Perché sull’iperturismo tutti guardano Barcellona

0
39 Numero visite
Un edificio occupato nel quartiere di Vallcarca, con un graffito che dice "la speculazione uccide i quartieri", il 18 maggio 2023 (David Zorrakino/Contacto via ZUMA/ansa)

Grazie ai suoi radicati movimenti per la casa e a un’amministrazione comunale sensibile la città catalana sta adottando soluzioni che altrove sembrano troppo radicali: basterà?

di Viola Stefanello
Redazione IL POST

Camminando per il centro di Barcellona è inevitabile imbattersi in uno slogan: «Tourist go home», «Turista, tornatene a casa». È scritto a caratteri cubitali con una bomboletta spray sul lungomare del quartiere Poblenou, su adesivi appiccicati su cestini e lampioni del quartiere di Gracia, su striscioni esposti alle manifestazioni. Ed è soltanto uno dei messaggi che contestano il turismo e soprattutto rivendicano il diritto all’abitare, sparpagliati per le strade della capitale catalana, che ha 1,6 milioni di abitanti ed è visitata da oltre 30 milioni di persone ogni anno.

Negli ultimi anni, Barcellona è diventata «uno dei principali laboratori di mobilitazione urbana e intervento municipale a difesa del diritto all’abitare», come ha scritto il ricercatore esperto di crisi abitative Gabriele D’Adda. Molto prima che tante altre città europee cominciassero a riflettere sul legame tra il repentino aumento nei prezzi degli affitti e la diffusione di appartamenti proposti per brevi periodi su piattaforme come Booking o Airbnb, in città esistevano movimenti molto attivi che si preoccupavano del tema a partire dal concetto di derecho a la vivienda, diritto all’abitare. E ora l’amministrazione locale è all’avanguardia nel cercare di arginare, se non proprio risolvere, il problema.

Soltanto per quanto riguarda il tema degli affitti brevi, per esempio, già nel 2015 l’amministrazione comunale, guidata dalla sindaca Ada Colau, aveva sospeso temporaneamente la possibilità di richiedere licenze per nuovi hotel, ostelli e appartamenti in affitto per turisti. Nel giugno del 2024, poi, il suo successore Jaume Collboni ha annunciato che nei prossimi anni la città spagnola non rinnoverà le licenze degli oltre 10mila appartamenti che attualmente vengono affittati a breve termine ai turisti. Secondo questo piano, se la misura non verrà accantonata nel frattempo, dal 2029 a Barcellona non ci saranno più appartamenti per affitti brevi, ma soltanto hotel o bed & breakfast tradizionali.

Queste notizie hanno aiutato ad alimentare una percezione di Barcellona come città molto lontana dall’immobilismo di tante altre sulla questione degli affitti brevi e dell’iperturismo, benché i movimenti interni alla città non siano necessariamente d’accordo. «Io capisco che quando ti trovi dentro a un movimento magari da cinque, dieci, quindici anni e vedi che ogni volta che vinci qualcosa poi viene ridimensionata, o non viene applicata, o la Corte costituzionale te la annulla hai l’impressione di non avanzare granché», dice d’Adda. «Ma quando racconti le cose che sono state fatte negli ultimi 15 anni a Barcellona, obiettivamente non c’è paragone con la situazione in Italia».

In parte questo interesse dei barcellonesi per il tema della casa e delle trasformazioni urbane è dovuto al fatto che la città, che per oltre un secolo è stata un grosso polo industriale, negli ultimi quarant’anni è cambiata moltissimo da un punto di vista architettonico, prima per ospitare le Olimpiadi del 1992 e poi per presentarsi come meta culturale internazionale. Il tema è diventato ancora più sensibile dopo la crisi economica del 2008, che in Spagna provocò anche una grande crisi immobiliare: migliaia di famiglie si trovarono fortemente indebitate, impossibilitate a pagare i mutui contratti negli anni della bolla immobiliare. Molti, poi, si avvicinarono al tema del diritto all’abitare dopo il 2011, grazie alla proliferazione di manifestazioni e assemblee civiche pubbliche straordinariamente partecipate sorte attorno al movimento 15-M (anche noto come movimento degli Indignados).

La stessa Colau, poi eletta sindaca di Barcellona nel 2015, proviene dal movimento per il diritto all’abitare: tra il 2006 e il 2008 fu una delle principali attiviste di V de Vivienda, movimento organizzato inizialmente online il cui slogan più famoso, ripetuto in bianco e nero su giallo per mesi su cartelli e sticker in giro per le città spagnole, diceva: «Non riuscirai ad avere una casa in tutta la tua cazzo di vita».

Oggi Colau dice che, a suo avviso, le pratiche che i movimenti mettevano in atto ancora prima della sua elezione sono state fondamentali nel rendere possibili molte delle misure poi adottate dalla sua amministrazione. «Io mi ricordo bene quando facevo l’attivista per il diritto alla casa e parlavo con il Comune, allora gestito dal Partito socialista», spiega. «Noi li avvisavamo che bisognava fare qualcosa di nuovo perché la situazione era sempre peggiore e bisognava fermare gli sfratti di famiglie in situazione di difficoltà e ci veniva risposto che non era possibile perché il Comune non aveva quelle competenze legali».

«Poi siamo arrivati in Comune e non abbiamo risolto tutti i problemi», continua Colau, «anche perché molti sono su scala globale, ma abbiamo fatto un sacco di cose che ci era stato detto fossero assolutamente impossibili. Per esempio abbiamo introdotto un servizio di mediazione chiamato Sipho per evitare gli sfratti e trovare soluzioni alternative: legalmente non sarebbe stata nostra competenza, ma sapevamo che si poteva fare perché i movimenti gli sfratti li fermavano già».

Gli adesivi di V de Vivienda (José María Mateos, CC BY-SA 2.0, via Flickr)

Questi risultati, dice D’Adda, «non si possono prendere e trapiantare in altre città come se fossero ristoranti in franchising. La storia e il contesto sociopolitico hanno un peso, e Barcellona ha una storia lunga e importante di attivismo e mobilitazioni dal basso». Già nel 1919 il movimento anarcosindacalista della città chiedeva un abbassamento drastico dei prezzi degli affitti; nel 1931, poi, la città fu al centro di uno dei più grandi scioperi degli affitti della storia, organizzati per criticare la sostanziale assenza di edilizia pubblica sul territorio e le condizioni insalubri in cui viveva buona parte della popolazione.

Fortemente antifranchista negli anni della dittatura, la popolazione di Barcellona ha peraltro sviluppato nei decenni un approccio all’attivismo fortemente basato sulla dimensione di quartiere, con l’obiettivo di costruire reti di solidarietà tra vicini, parola con cui si intendono tuttora non solo i propri vicini di casa stretti ma tutte le persone che vivono nella stessa zona della città. Per di più, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta la città è stata al centro di un forte movimento di occupazione di edifici inutilizzati, trasformati in centri sociali o abitazioni.

Un orto urbano gestito dall’associazione di quartiere di Eixample, nel centro di Barcellona (Viola Stefanello/il Post)

Le due organizzazioni nazionali per il diritto all’abitare più importanti della Spagna sono nate entrambe a Barcellona. La prima è la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH, ovvero Piattaforma delle vittime dei mutui), creata nel 2009 per aiutare le persone che rischiavano di essere sfrattate per via della crisi immobiliare e oggi è attiva in 226 città spagnole. La seconda è il Sindicat de Llogateres (Sindacato degli Inquilini), che lotta principalmente per i diritti delle persone che vivono in affitto: oggi ne esistono di molto simili anche a Madrid, Malaga e nelle Asturie, e ci sono sezioni più piccole in molti quartieri di Barcellona.

Questo non vuol dire che gli altri movimenti cittadini che si occupano delle stesse cose non possano imparare qualcosa dalle esperienze sviluppate a Barcellona. «Io non credo nelle “città modello”, ma credo fortemente che al di là delle specificità locali e nazionali esista una potenziale trasversalità nell’agire», commenta l’architetta Emanuela Bove, che vive a Barcellona ed è attiva nei movimenti dal 2003. «Gli stessi movimenti di Barcellona sono partiti da altre esperienze francesi e inglesi per proporre la misura del 30 per cento», ovvero la legge locale del 2018 che istituisce l’obbligo di destinare il 30 per cento delle nuove costruzioni e delle grandi ristrutturazioni edilizie ad alloggi a prezzi calmierati.

L’Antiga Massana, sede del Sindacato degli Inquilini del quartiere del Raval (Viola Stefanello/il Post)

Nell’esperienza di Bove, un primo passo fondamentale è quello di avere chiaro il proprio messaggio e lavorare per renderlo comprensibile e condivisibile presso un pubblico più ampio. A Barcellona, in questo senso, già dal 2006 il movimento V de Vivenda «aveva messo sul piatto il fatto che, per come stavano andando le cose, la casa aveva perso il proprio valore d’uso per diventare una mercanzia. Quello che hanno fatto è ricordare che la casa non è solo un bene, è un diritto. È un linguaggio che doveva entrare nella coscienza collettiva: oggi per esempio si parla di gentrificazione, fino a dieci anni fa questa parola non la capiva nessuno».

La stessa cosa si può dire della lotta all’iperturismo, dice Anna Pacheco, catalana, autrice del saggio Estuve aquí y me acordé de nosotros, sulle trasformazioni economiche e urbanistiche subite dalla città per via della turistificazione dell’ultimo decennio. «Quando Assemblea de Barris pel Decreixement Turístic [Assemblea dei quartieri per il contenimento del turismo, ndr] ha cominciato a esporre le proprie richieste, sembravano pura fantasia. L’idea di volere meno turismo a Barcellona, che è una città che si percepisce come puramente turistica, era lunare. Ma siamo riusciti a spiegare alle persone che non è una questione di odiare i turisti perché ti dà fastidio averli in giro o stare dietro a loro in coda per il ristorante: è che la loro presenza massiccia è legata direttamente all’aumento degli affitti, alla trasformazione degli appartamenti residenziali in Airbnb». A luglio in città c’è stata la prima manifestazione davvero partecipata contro l’iperturismo: in strada, secondo l’organizzazione, erano in 20mila.

«Quando siamo arrivati in Comune una delle prime iniziative che abbiamo introdotto partiva dal presupposto che il turismo fosse fuori controllo. Barcellona è una città aperta e ci piace tantissimo che la gente venga a visitarla, ma il turismo di massa se non viene regolato distrugge la vita nei quartieri, soprattutto quelli più centrali», secondo Colau.

«Quindi abbiamo fatto un primo piano regolatore urbanistico e deciso che non si potevano più aprire alberghi e appartamenti turistici in determinati quartieri. Poi abbiamo creato un nuovo servizio di ispezione per gli appartamenti turistici fuori legge e ne abbiamo chiusi migliaia, facendoli tornare a essere abitazioni per residenti, e questo è diventato effettivamente un esempio per tutta Europa: adesso ci sono città come Amsterdam con cui condividiamo l’esperienza e in generale so che le istituzioni europee stanno studiando Barcellona come esempio da valorizzare ed esportare come si può».

Un’altra pratica che ha contribuito alla costruzione di un movimento attivo e trasversale a Barcellona l’ha introdotta la PAH: è quella delle assemblee, ogni settimana alla stessa ora, aperte a chiunque sia in una situazione di difficoltà per quanto riguarda la casa. Soprattutto nei primi anni della crisi immobiliare, racconta Bove, le persone arrivavano in assemblea spaventate, stressate, in ansia. «Attraverso la pratica assembleare arrivavano a capire che il loro non era un caso isolato, che non era colpa loro se avevano perso il lavoro e si trovavano in quella situazione. Che c’era un’azione combinata di politica e finanza dietro. E che la bolla immobiliare era scoppiata salvando tutti i grandi dirigenti e i gruppi bancari, ma le persone avevano pagato sulla propria pelle quello che era un sistema che loro non avevano creato».

Oltre a organizzare assemblee, la PAH fornisce anche strumenti per contrattare con le banche o i padroni di casa, e in caso di sfratto organizza azioni di disobbedienza civile che consistono nel radunare quante più persone possibili davanti alla porta di casa delle persone minacciate di sfratto, per renderlo più difficile. In questo modo, per esempio, tra il 2018 e il 2019 solo a Barcellona sono stati evitati 433 sfratti sui 474 in cui è stata coinvolta la PAH.

Casa Orsola, i cui inquilini stanno negoziando dal 2021 con un fondo d’investimento che non vorrebbe rinnovare i loro contratti d’affitto (Viola Stefanello/il Post)

«È fondamentale creare muscolo, ovvero una base sociale», spiega Bove. «I catalani hanno ereditato dal periodo antifranchista un motto, “la protesta y la propuesta”: devi stare sempre seduto al tavolo delle proposte, creare l’orizzonte per quello che vuoi ottenere. Cercare persone a cui interessano le stesse cose, accordarci, fare massa critica, mettere insieme capacità di analisi e strumenti, capire come coordinarsi, creare un sistema che ti permetta concretamente di lottare per qualcosa, fino ad arrivare anche a livello nazionale e internazionale», dato che raramente un solo ente ha le competenze per cambiare tutte le leggi necessarie.

In questo caso, il movimento per il diritto all’abitare di Barcellona si è dovuto confrontare con la grande instabilità politica in Catalogna dell’ultimo decennio, e anche con il fatto che il tema dell’indipendenza catalana ha assorbito molte delle energie politiche della popolazione. «Gli sfratti continuano, le assemblee dei movimenti sono piene di gente in difficoltà, la crisi abitativa non è stata risolta», dice Bove, «ma credo si siano fatti dei passi avanti importanti, a partire dal fatto che una larga parte della popolazione in tutta la Spagna ora condivide l’idea che la regolamentazione degli affitti brevi è assolutamente necessaria».

 

L'informazione completa