In Messico i narcotrafficanti hanno fatto campagna elettorale con la violenza

Le bande criminali hanno cercato di influenzare le grandi elezioni di domenica: sono stati uccisi più di 30 candidati, centinaia sono stati aggrediti e molti altri si sono ritirati

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Un omicidio a Veracruz a marzo 2024 (AP Photo/Felix Marquez)

La campagna elettorale per le elezioni in Messico di domenica 2 giugno è stata tra le più violente della storia recente del paese: decine di candidati sono state uccise, centinaia sono state aggredite e molti si sono ritirati per proteggere la propria sicurezza, quella dei loro famigliari e collaboratori. Le violenze sono riconducibili alle bande criminali e ai cartelli dei narcotrafficanti, le cui attività si sono intensificate durante il mandato dell’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador, in carica dalla fine del 2018.

Negli ultimi anni i cartelli hanno aumentato la loro influenza sulla politica locale, al punto che in molti casi i loro membri propongono candidati, corrompono i funzionari, condizionano il voto, minacciano i politici che ritengono avversi e uccidono quelli ritenuti pericolosi o problematici.

Alle elezioni di domenica quasi 100 milioni di messicani voteranno per rinnovare più di 20mila incarichi, il numero più alto di sempre in una singola elezione nel paese. Saranno eletti la nuova presidente del paese (è largamente favorita Claudia Sheinbaum, ex sindaca di Città del Messico ed erede designata di López Obrador), nove governatori, 628 parlamentari e oltre 20mila funzionari locali. Soprattutto questi ultimi sono presi di mira dai narcotrafficanti, che puntano a inserirsi nella politica e nelle amministrazioni pubbliche per aumentare il proprio controllo sul territorio: un sindaco corrotto o espressione di un cartello gestirà una polizia compiacente, non ostacolerà estorsioni e posti di blocco, favorirà l’inserimento delle organizzazioni criminali anche in appalti e commesse pubbliche.

Per questo, da qualche tempo alle consuete opere di corruzione di politici i cartelli preferiscono la candidatura di uomini che fanno parte direttamente della loro organizzazione, e sempre più spesso gli amministratori locali diventano un obiettivo delle guerre fra diversi cartelli. Finora 32 candidati sono stati uccisi per motivi politici, ma il numero sale a 100 se si considerano anche familiari, collaboratori e funzionari. La società messicana di consulenza politica Integralia ha contato oltre 560 persone vittime di attacchi violenti per motivi politici e 316 fra attacchi e minacce rivolte direttamente a candidati. Il numero è in crescita rispetto a quello delle elezioni del 2018 (389 vittime di attacchi) e a di quelle di metà mandato nel 2021 (299). Solo il numero di omicidi della campagna 2018 resta superiore: 48.

Due donne assistono a una processione per un funerale a Huitzilac, vicino a Città del Messico (AP Photo/Fernando Llano)

Ad aprile nel giro di pochi giorni nello stato di Zacatecas, nel Messico centrale, 200 candidati a incarichi locali si sono ritirati dalle elezioni, mentre 554 candidati in tutto il paese sono stati messi sotto scorta, con l’impiego di 3.450 soldati. Sono per lo più candidati a livello nazionale, mentre quelli locali sono costretti a ricorrere alle forze di polizia del proprio distretto o a ingaggiare guardie del corpo private.

L’aumento della violenza e delle pressioni sulla politica è il riflesso di una sempre maggiore influenza delle organizzazioni criminali sulla società messicana, in aree sempre più ampie. Secondo il think tank Crisis Group, nel 2021 i cartelli erano operativi in un quinto delle 2.500 municipalità del Messico (aree che possono comprendere uno o più comuni, a seconda delle dimensioni), un dato superiore del 10 per cento rispetto al 2010. È probabile che nel tempo la loro presenza sia aumentata ancora, soprattutto in stati come Guerrero, Zacatecas e Michoacán.

Nell’ultimo anno la situazione è particolarmente peggiorata in Chiapas, stato meridionale dove il cartello di Sinaloa e il Jalisco Nueva Generación sono in guerra. Gli omicidi sono cresciuti del 60 per cento rispetto al 2023 e a maggio ci sono stati due attacchi a candidati alle elezioni di domenica: in uno sono stati uccisi 5 membri dello staff, in un altro l’aspirante sindaca e altre cinque persone, fra cui una bambina.

In Chiapas i due cartelli si contendono il controllo delle rotte attraverso le foreste e le montagne al confine con il Guatemala, utilizzate per il traffico di droga e per i crescenti interessi economici che ruotano attorno al passaggio di migranti diretti negli Stati Uniti. Oltre a queste due attività, in tutto il Messico i gruppi criminali si sono infiltrati anche nelle operazioni di estrazione mineraria e spesso compiono estorsioni legate al settore agricolo, ai trasporti e alla distribuzione di acqua potabile.

Un murale che ricorda 13 persone uccise a Creel (AP Photo/Eduardo Verdugo)

L’incremento dei crimini violenti è il principale tema di preoccupazione dell’elettorato messicano in vista di queste elezioni, anche più della situazione economica. Da quando è diventato presidente, López Obrador ha affrontato il tema con un approccio completamente diverso rispetto a quello dei predecessori, varando la politica chiamata «Abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili). Alla fine del suo mandato, molti analisti ritengono che la strategia non abbia ottenuto i risultati sperati, come del resto quelle dei predecessori.

Nel 2006 l’allora presidente Felipe Calderón, di centrodestra, iniziò una guerra più risoluta e radicale al narcotraffico: decise di inviare l’esercito nelle strade per contrastare con la forza le organizzazioni criminali. Ne scaturì una guerra feroce, nel corso della quale i cartelli del narcotraffico si organizzarono militarmente per rispondere all’esercito e in questo modo diventarono entità armate capaci di controllare il territorio e di farsi la guerra tra di loro. Si stima che dal 2006 a oggi in Messico siano state uccise 450mila persone, il 70 per cento delle quali coinvolte nella violenza del narcotraffico.

Dopo Calderón anche i governi successivi, sostenuti dagli Stati Uniti, mantennero una simile linea dura di repressione e scontro aperto con i narcotrafficanti: ottennero solo alcuni successi isolati, come l’uccisione o l’arresto di vari capi criminali.

Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (AP Photo/Eduardo Verdugo)

Nel corso del suo mandato, López Obrador ha puntato sullo sviluppo sociale e non sulla repressione: tra le altre cose il suo governo ha stanziato enormi fondi per programmi destinati alle aree meno sviluppate, con l’intento di privare le bande criminali dei loro bacini di reclutamento tra le fasce più povere della popolazione. Ha anche sciolto la corrotta Polizia Federale e l’ha sostituita con 130mila soldati della Guardia Nazionale, incaricati di presidiare il territorio ma non di contrastare attivamente i narcotrafficanti, con l’idea che non si possa «combattere la violenza con la violenza».

Questa politica ha di fatto ridotto gli arresti, passati da 21.700 nel 2018 a 2.800 nel 2022, ma non la violenza. Durante i sei anni di mandato di López Obrador gli omicidi sono stati 180mila, il risultato peggiore di sempre. Sono 30mila omicidi all’anno, 23 ogni 100mila abitanti, 40 volte più che in Italia, dove sono circa 0,5 ogni 100mila abitanti. I dati inoltre non comprendono le sparizioni, per lo più omicidi senza il ritrovamento del cadavere, a loro volta in crescita.

In campagna elettorale la candidata presidente Claudia Sheinbaum, di MORENA, il partito del presidente uscente, ha già dichiarato che intende proseguire con questa politica, nella convinzione che un lavoro a lungo termine dia risultati migliori rispetto a un approccio repressivo: «Il Messico ci è già passato, la guerra non serve a niente, genera solo più violenza».

Redazione IL POST

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