Mentre erano nella Striscia di Gaza o al confine con il Libano: molti erano reporter palestinesi che lavoravano tra enormi difficoltà
Giovedì l’agenzia di stampa Reuters ha confermato che un suo giornalista è stato ucciso e sei reporter sono stati feriti in Libano il 13 ottobre scorso. I giornalisti stavano facendo alcune riprese per documentare gli scontri sul confine tra Libano e Israele che coinvolgono l’esercito israeliano e i miliziani del gruppo paramilitare sciita Hezbollah. Gli attacchi reciproci sono diventati molto frequenti dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, il 7 ottobre, dato che Hezbollah è sostenuto dall’Iran e quindi nemico di Israele.
I giornalisti sono stati colpiti da alcuni proiettili lanciati da due carri armati israeliani. Il giornalista ucciso si chiamava Issam Abdallah e aveva 37 anni, mentre tra i feriti più gravi c’è la fotografa dell’agenzia di stampa Agence France-Presse (AFP) Christina Assi, di 28 anni. Per accertare la dinamica degli attacchi Reuters ha detto di aver parlato con oltre 30 esponenti del governo e della difesa israeliani, con esperti militari, investigatori forensi, medici e testimoni, e di aver guardato ore di filmati e centinaia di fotografie diffuse da varie organizzazioni giornalistiche locali.
Dall’inizio della guerra fare il giornalista nella Striscia di Gaza e nei territori limitrofi è diventato molto pericoloso. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), un’associazione nata con lo scopo di difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo, tra il 7 ottobre e l’8 dicembre nella Striscia di Gaza e nelle zone sul confine tra Israele e Libano sono stati uccisi 63 giornalisti e lavoratori del settore dei media: 56 palestinesi, 4 israeliani e 3 libanesi. La maggior parte sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani che hanno colpito gran parte del territorio della Striscia. Altri 11 giornalisti sono stati feriti, tre risultano dispersi e 19 sono stati arrestati. Sono numeri molto alti, considerando per esempio che in quasi due anni di guerra in Ucraina sono stati uccisi 17 giornalisti, sempre secondo le ricerche del CPJ.
Inoltre il CPJ ha detto di aver ricevuto molte altre segnalazioni, ancora non confermate, riguardo ad altri giornalisti dispersi, uccisi, feriti o minacciati. Non è chiaro se tutti i giornalisti uccisi stessero effettivamente lavorando per raccontare la guerra, ma il Comitato sta investigando per chiarire le cause e le dinamiche degli eventi.
La Striscia di Gaza è diventata un territorio particolarmente difficile da cui lavorare per raccontare la situazione e gli sviluppi della guerra. I giornalisti internazionali non possono più entrare nella Striscia dallo scorso 7 ottobre, quando il governo israeliano ha chiuso il varco di Erez, in precedenza usato anche dalla stampa. Sul campo quindi sono rimasti solo i reporter locali o i pochi corrispondenti che erano già presenti prima dell’attacco di Hamas: in alcuni casi si tratta di dipendenti fissi di grandi organizzazioni giornalistiche, come AP, BBC e Al Jazeera, ma più spesso sono collaboratori locali dei media internazionali che vengono definiti stringer.
Oltre alla loro sicurezza personale e a quella delle loro famiglie, i giornalisti devono fare i conti con problemi pratici che complicano il loro lavoro. Per esempio, dall’inizio della guerra a Gaza le connessioni internet e telefoniche funzionano in modo altalenante, e in alcune occasioni sono state completamente interrotte per ore o anche giorni interi. Anche l’energia elettrica, necessaria per ricaricare telefoni, videocamere e computer, scarseggia soprattutto a causa della mancanza di carburante. Come tutti gli abitanti della Striscia, anche i giornalisti ogni giorno devono procurarsi beni di prima necessità come cibo e acqua, e trovare un luogo relativamente sicuro per ripararsi dai bombardamenti.
Negli ultimi due mesi le sedi di varie agenzie di stampa nella Striscia di Gaza sono state danneggiate dai bombardamenti: il 3 novembre AFP ha pubblicato video e foto dei propri uffici nella città di Gaza, nel nord della Striscia, visibilmente danneggiati da una «esplosione».
«I giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in un momento di crisi, e non dovrebbero essere considerati obiettivi militari dalle parti coinvolte nella guerra», ha detto Sherif Mansour, il coordinatore del CPJ per il Medio Oriente e il Nord Africa. «Stanno facendo grandi sacrifici per coprire questo conflitto, e soprattutto i giornalisti che si trovano a Gaza hanno pagato, e continuano a pagare, un prezzo altissimo e sono esposti a rischi enormi. Molti hanno perso colleghi, familiari e uffici, e sono dovuti scappare per mettersi in salvo». Secondo le Convenzioni di Ginevra, adottate nel 1949, i giornalisti che lavorano in zone di guerra devono essere considerati civili, e quindi non dovrebbero essere coinvolti nei combattimenti.
A partire dal 4 novembre alcuni giornalisti internazionali sono potuti entrare nella Striscia di Gaza al seguito dell’esercito israeliano, con la pratica del cosiddetto “giornalismo embedded”, che esiste da decenni e viene spesso applicata in contesti di guerra. Si è trattato di visite brevi, generalmente della durata di poche ore, a bordo di mezzi blindati e sempre sotto la supervisione dell’esercito. Il 17 novembre alcuni giornalisti del New York Times hanno potuto visitare alcune aree dell’ospedale al Shifa, il più grande della città di Gaza, sotto al quale secondo Israele si trovava il principale centro operativo di Hamas (un’accusa negata dai miliziani e dalla direzione dell’ospedale ma confermata in parte dall’intelligence statunitense). I giornalisti però non erano liberi di muoversi autonomamente, e dopo il termine della visita sono dovuti uscire dalla Striscia. L’11 novembre anche l’inviato di Repubblica Fabio Tonacci era entrato nella Striscia a seguito dell’esercito israeliano.
Redazione Il Post