L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, 60 anni fa

La cronaca di uno degli avvenimenti più importanti nella storia degli Stati Uniti, e di quanto successo prima e dopo

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John e Jacqueline Kennedy a Dallas poco prima che il presidente venga ucciso, 22 novembre 1963 (AP Photo/Jim Altgens)

Alle 12:30 di venerdì 22 novembre 1963 a Dallas, negli Stati Uniti, il corteo di cui faceva parte l’auto presidenziale di John Fitzgerald Kennedy svoltò in Dealey Plaza. Pochi secondi più tardi si sentirono tre colpi di arma da fuoco. Due colpirono Kennedy, che morì poco dopo in ospedale.

Il racconto di quei giorni e della visita della coppia presidenziale in Texas, iniziata il 21 novembre, è stato oggetto di inchieste parlamentari e innumerevoli ricostruzioni giornalistiche, film e libri. La successione dei fatti di quei giorni è stata analizzata con altissima precisione, anche se ogni singolo particolare ha dato il via a teorie alternative, più o meno complottistiche.

John Fitzgerald Kennedy era stato eletto presidente nel 1960, quando era senatore Democratico del Massachusetts, battendo l’allora vicepresidente Repubblicano uscente Richard Nixon. Nell’autunno del 1963 era ormai chiaro che Kennedy si sarebbe ricandidato per un secondo mandato come presidente degli Stati Uniti. Alla fine di settembre aveva già fatto un tour degli stati americani occidentali, tenendo comizi in nove stati diversi in meno di una settimana: cominciò a introdurre i temi che intendeva mettere al centro della sua campagna elettorale del 1964, come l’istruzione, la sicurezza nazionale e la pace mondiale.

A ottobre parlò a due eventi dei democratici a Boston e a Filadelfia. Il 12 novembre tenne la prima riunione importante per decidere la strategia politica dell’anno successivo, quello delle elezioni. JFK – il soprannome con cui era chiamato all’epoca – sottolineò l’importanza di vincere in Florida e in Texas (nel primo stato aveva perso nel 1960 contro Nixon, ma nel secondo aveva vinto), e parlò dei suoi piani per visitarli entrambi nelle successive due settimane. In Texas sarebbe stato accompagnato dalla moglie Jacqueline, la sua prima apparizione pubblica importante dalla morte del loro figlio Patrick ad agosto, e dal vicepresidente Johnson, texano. Il 21 novembre la coppia presidenziale partì a bordo dell’Air Force One per una visita di due giorni in cui Kennedy aveva in programma di parlare in cinque città.

Il giorno del suo arrivo in Texas, il 21 novembre, Kennedy era già stato a San Antonio e a Houston, partecipando ad alcuni eventi pubblici. La terza e ultima tappa della giornata fu Fort Worth, dove si trovava l’Hotel Texas, in cui il presidente arrivò con la moglie poco prima di mezzanotte per passare la notte nella stanza 850. La mattina successiva si svegliò mentre sulla città cadeva una pioggia leggera: in albergo indossò un busto per alleggerire il carico sulla sua schiena debole e malandata (Kennedy aveva il morbo di Addison). Poi uscì, salì su una piattaforma costruita nel parcheggio – dove lo stavano aspettando alcune migliaia di persone – e, senza riparo contro la pioggia, tenne un breve discorso, che iniziò intorno alle 8:50. «Fort Worth non è un posto per cuori deboli e apprezzo che voi siate qui questa mattina», cominciò.

Tornato nell’hotel, alle 9 Kennedy si recò a una colazione organizzata dalla Camera di Commercio cittadina. La moglie Jacqueline lo raggiunse alle 9:20 e cinque minuti più tardi Kennedy parlò di nuovo, concentrandosi soprattutto sul tema della preparazione militare: il suo ultimo discorso pubblico. Alle 10:40 il corteo di auto con Kennedy e la moglie a bordo partì dall’Hotel Texas per la base dell’aviazione militare di Carswell: di lì l’Air Force One partì per il Love Field di Dallas, distante circa 50 chilometri. L’aereo presidenziale atterrò a Dallas alle 11:38, dopo 13 minuti di volo, e il presidente scese sei minuti più tardi, accompagnato dalla moglie, dal governatore del Texas, il democratico John Connally, e dalla moglie di quest’ultimo.

Dopo un breve saluto alle persone che aspettavano la coppia presidenziale dietro le transenne, il corteo di auto partì alle 11:52 dall’aeroporto di Love Field, diretto a un pranzo in onore del presidente al Dallas Trade Mart. L’auto dei Kennedy era una Lincoln Continental a quattro porte del 1961, modificata su indicazione del servizio di protezione del presidente da un laboratorio Ford. Jacqueline Kennedy, che aveva ricevuto un bouquet di rose rosse all’aeroporto, lo portò con sé salendo sulla limousine seguita dal marito. Il governatore Connally e la moglie Nellie erano già a bordo, mentre il vicepresidente Johnson e la moglie erano su un’altra auto.

Poche ore prima il Secret Service, l’agenzia governativa responsabile della sicurezza dei presidenti, aveva controllato le previsioni del tempo e aveva deciso che, nonostante la pioggia che era scesa anche su Dallas, la copertura trasparente e impermeabile dell’auto presidenziale si sarebbe potuta togliere per il corteo. Alla partenza dall’aeroporto, il tempo su Dallas si era trasformato in una bellissima giornata.

Centocinquantamila persone si accalcavano lungo il percorso previsto dal corteo, lungo circa 12 chilometri. Il corteo era formato da una trentina di mezzi tra automobili, autobus e moto: l’auto presidenziale era la quarta. Fece alcune soste non previste per salutare la folla – JFK non aveva voluto agenti della scorta sulla limousine con lui, per aumentare l’effetto di vicinanza con la gente – che ritardarono il corteo di circa cinque minuti sulla tabella di marcia. Svoltò in Main Street, la strada principale di downtown Dallas, alle 12:21.

Mentre lasciavano la strada, otto minuti più tardi, la moglie del governatore non riuscì a trattenersi, si girò sul sedile e disse: «Signor presidente, non può dire che Dallas non la ami!» Alle 12:30 il corteo svoltò in Dealey Plaza e mentre l’auto era all’altezza di un deposito di libri di proprietà del sistema scolastico del Texas, si sentirono tre colpi di arma da fuoco. Il primo colpì Kennedy alla nuca e il proiettile uscì dalla gola. Kennedy si mise le mani al collo ma invece di accasciarsi restò in posizione eretta, probabilmente a causa del busto. Il secondo colpo entrò nella parte posteriore della testa e uscì vicino alla tempia destra. A quel punto si accasciò lateralmente. Il governatore Connally fu colpito al petto.

Per pochi secondi l’auto presidenziale, guidata dall’agente del Secret Service Bill Greer, rallentò fino a procedere a passo d’uomo, ma quasi subito accelerò per allontanarsi. Si diresse verso il Parkland Memorial Hospital, distante pochi minuti di strada. La Lincoln vi arrivò alle 12:36 e il paziente “24740, maschio bianco” venne portato subito in una sala operatoria del pronto soccorso, dove i medici usarono il foro causato dal proiettile nel collo per praticare una tracheotomia.

Presto fu chiaro che tutti gli sforzi erano inutili: a tre isolati dall’ospedale c’era una chiesa cattolica e il suo parroco settantenne, Oscar Huber, fu chiamato pochi minuti dopo per amministrare l’estrema unzione al presidente. Nel frattempo, alle 12:40, lo storico presentatore del notiziario serale della CBS Walter Cronkite aveva interrotto una soap opera allora in onda per un brevissimo annuncio senza immagini dell’attentato al presidente (le parole di quell’annuncio, che dava il presidente gravemente ferito, rimangono famose nella storia del giornalismo americano: «In Dallas, Texas, three shots were fired…»). All’una del pomeriggio, John Fitzgerald Kennedy venne dichiarato morto dai medici: prima da Kemp Clark, dell’ospedale, poi dall’ammiraglio George Burkley, medico ufficiale di Kennedy. I media americani diedero la notizia circa mezz’ora dopo.

La bara con il corpo del presidente fu portata all’aeroporto di Love Field e sistemata sull’Air Force One. Alle 14:38, prima che l’aereo decollasse, Lyndon Johnson giurò nello stretto e affollato scompartimento davanti al giudice federale Sarah Hughes.

Lee Harvey Oswald
Otto ore prima, intorno alle 6:30, il 24enne Lee Harvey Oswald si alzò dal letto a Irving, una città pochi chilometri a nordovest del centro di Dallas, dopo una notte insonne. Si preparò per andare al lavoro al deposito scolastico di Dealey Plaza e prima di lasciare la casa della moglie, dove aveva dormito (la coppia non viveva insieme), lasciò su un mobile l’anello di matrimonio e il suo portafoglio, da cui aveva preso 170 dollari. Il passaggio per il lavoro, come altre mattine, gli fu dato dal collega Buell Wesley Frazier. Oswald portava con sé una grossa busta di carta marrone, che sembrava contenere qualcosa di stretto e lungo. Disse a Frazier che erano aste per le tende. In realtà la busta conteneva una carabina Carcano, un residuato bellico prodotto in Italia nel 1940 e comprato per corrispondenza da Oswald nel marzo di quell’anno.

Oswald aveva una storia personale per molti aspetti incredibile: era stato nei marine in Giappone, si dichiarava marxista, nel 1959 era andato in URSS nel tentativo di diventare un cittadino sovietico – si dichiarava un fervente comunista e aveva una moglie russa –, aveva tentato di trasferirsi a Cuba, ed era ritornato negli Stati Uniti nel 1962, lavorando in un laboratorio fotografico. Qui aveva prodotto anche documenti falsi con l’alias “Alek J. Hidell”, con cui comprò il fucile. Soffriva di pesanti disturbi psicologici e sette mesi prima dell’omicidio di Kennedy aveva molto probabilmente provato a uccidere un generale ultranazionalista dell’esercito americano, Edwin Walker.

Oswald era stato assunto al deposito dei libri poco più di un mese prima, il 16 ottobre. Intorno alle 11:50 molti colleghi lo videro nella mensa del primo piano del deposito di libri. Quaranta minuti più tardi, secondo quanto conclusero quattro inchieste governative americane, il fucile Carcano di Oswald sparò tre colpi all’auto presidenziale: il primo mancò il bersaglio, il secondo colpì Kennedy al collo, vicino alla scapola destra, e uscendo dalla gola si piantò nella schiena del governatore Connally. Il terzo colpì il lato destro della testa di Kennedy creando una nuvola di colore rosa. L’istante rimase impresso nel fotogramma 313 della pellicola di Abraham Zapruder, un fabbricante di abiti femminili che stava filmando casualmente la scena: e quando rivendette il filmato a LIFE, Zapruder si fece promettere che il fotogramma 313 sarebbe stato tolto e mai pubblicato.

Dopo aver sparato Oswald prese una Coca-Cola da un distributore automatico e uscì dall’edificio, dopo essere stato brevemente fermato da un agente della polizia di Dallas, Marrion Baker, che lo lasciò andare quando uno dei responsabili della struttura lo riconobbe come un impiegato del deposito. Ma al sesto piano dell’edificio la polizia trovò poco dopo la finestra da cui erano partiti i colpi, con una pila di scatole a fare da sostegno al fucile e i resti di cibo di chi era rimasto in attesa di sparare.

Venne diramata una descrizione di Oswald, che intanto continuava a camminare per Dallas. Salì su un autobus ma vi scese dopo pochi minuti, perché il traffico intorno a Dealey Plaza era bloccato. Allora prese un taxi e tornò alla sua stanza in affitto nel quartiere di Oak Cliff, dove si cambiò e prese una pistola. Intorno alle 13:15, l’agente J.D. Tippit notò un uomo che camminava lì vicino che corrispondeva alla descrizione del sospetto e lo fece avvicinare alla sua macchina. Tippit venne ucciso con quattro colpi di pistola.

Dopo l’omicidio di Tippit, Oswald si rifugiò in un cinema distante pochi isolati, che stava proiettando War is Hell, ambientato nella guerra di Corea. Era stato notato mentre si infilava nel cinema evitando il bigliettaio e vennero chiamati due poliziotti che erano arrivati nella zona. La proiezione venne interrotta, le luci vennero accese e Oswald venne individuato molto presto. Estrasse la pistola gridando, ma un poliziotto gli andò addosso e gli impedì di sparare. Nella zuffa che seguì Oswald venne colpito all’occhio sinistro da un pugno, che gli causò un taglio e un occhio nero. Alle 13:50 Oswald era in arresto.

La bara con il corpo di Kennedy lasciò il Parkland Hospital alle 14:04. L’Air Force One partì mezz’ora più tardi da Dallas. Jacqueline Kennedy vi rimase accanto, rifiutando di cambiarsi gli abiti sporchi di sangue, lungo il volo di due ore fino alla base dell’aviazione militare di Andrews, nel Maryland, poco distante da Washington, dove l’aereo presidenziale atterrò poco prima delle 17. Jacqueline accompagnò il corpo anche all’ospedale navale di Bethesda, dove venne trasferito in ambulanza e arrivò intorno alle sei di pomeriggio. Mezz’ora dopo cominciò l’autopsia.

Nella notte Oswald venne identificato e incriminato ufficialmente per gli omicidi dell’agente Tippit e del presidente degli Stati Uniti, un crimine che allora non era un reato federale. Alle 3:34 del mattino, ancora accompagnato da Jacqueline Kennedy, il corpo di Kennedy arrivò alla Casa Bianca e venne sistemato nella East Room, guardato da soldati in rappresentanza di tutti i corpi militari americani. Alle 9 del mattino si tenne una messa per i membri della famiglia Kennedy e gli amici più stretti del presidente. Nel frattempo il segretario della Difesa Robert McNamara si era già recato al cimitero di Arlington per ispezionare il possibile luogo della sepoltura, uno dei primi passi nell’organizzazione del funerale.

Quel mattino il nuovo presidente Lyndon Johnson aveva passato due ore a colloquio con l’ancora influente ex presidente Dwight Eisenhower, chiedendo consigli sulla politica fiscale e su cosa fare in Indocina e a proposito di Cuba. Aveva già rifiutato le dimissioni di molti membri dell’amministrazione Kennedy, che volevano rispettare la tradizione del cambio di amministrazione dopo il cambio del presidente. Intorno alle quattro del pomeriggio, dopo aver presieduto la prima riunione di governo come nuovo presidente, Johnson dichiarò in televisione il lutto nazionale per lunedì 25 novembre.

Lyndon Johnson e Jack Ruby
La bara del presidente Kennedy, avvolta nella bandiera americana, lasciò la camera ardente della Casa Bianca poco dopo mezzogiorno di domenica 24 novembre. Era diretta al Campidoglio, su una carrozza trainata da sei cavalli grigi e accompagnata da un cavallo nero senza cavaliere. Secondo la volontà di Jacqueline Kennedy, il corteo e molti altri dettagli cerimoniali furono decisi su modello del funerale di Abraham Lincoln, un collegamento simbolico con uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti (e il primo presidente a venire ucciso durante il suo mandato: ce ne furono altri due prima di Kennedy, James Garfield nel 1881 e William McKinley nel 1901). Il percorso lungo Pennsylvania Avenue era affiancato da una grande folla. Per ventuno ore si tenne la camera ardente alla Rotonda del Campidoglio, a cui fecero visita 250mila persone.

A Dallas, intanto, stava per avvenire un altro evento totalmente inatteso. Lee Oswald era già stato interrogato molte volte durante il giorno precedente, da uomini della polizia e da agenti dell’FBI, ma aveva sempre negato di avere qualcosa a che fare con gli omicidi di Tippit e di Kennedy, anche davanti alle prove che lo collegavano alle armi e ai luoghi dei delitti. Rispondeva spesso con un sorriso ironico e con apparente sicurezza di sé. Per la mattina del 24 si prevedeva il suo trasferimento dal quartier generale della polizia di Dallas alla prigione della contea.

La polizia aveva fatto arrivare un veicolo blindato per il tragitto, ma la “passeggiata” del sospetto – la cosiddetta perp walk – si tenne lo stesso a beneficio di fotografi e televisioni, con tanto di esibizione del fucile usato nell’omicidio. Alle 11:21, gli americani che seguivano l’evento in diretta videro improvvisamente un uomo avvicinarsi a Oswald, che percorreva un corridoio al pianterreno della centrale di polizia attorniato da agenti, e sparargli da pochi centimetri con una pistola.

L’uomo che sparò a Oswald venne immediatamente arrestato. Si chiamava Jack Ruby e sarebbe stato al centro di innumerevoli teorie del complotto negli anni successivi. Era stato arrestato diverse volte nei quindici anni precedenti, aveva avuto qualche contatto con la mafia locale ed era il proprietario di un locale di spogliarelli a Dallas, il Carousel Club. La notizia dell’uccisione di Kennedy lo aveva riempito di rabbia, dato che aveva una vera e propria adorazione per il presidente. Quando seppe che quel mattino era previsto il trasferimento di Oswald, attraversò la città – fermandosi a fare un versamento a una delle sue dipendenti da una filiale della Western Union – e raggiunse la sede della polizia. Entrò nell’affollato pianterreno, si fece largo tra i giornalisti e i poliziotti, diversi dei quali conosceva per nome per i suoi molti precedenti, estrasse una Colt Cobra dalla tasca e sparò a Oswald, dicendo soltanto: «Hai ucciso il mio presidente!»

Oswald morì al Parkland Hospital, lo stesso ospedale dove due giorni prima era arrivata la Lincoln di Kennedy con il presidente ferito a morte. L’operazione d’urgenza cominciò una ventina di minuti dopo i colpi di Ruby, ma poco dopo le 13, mentre la bara di mogano con il corpo di John Fitzgerald Kennedy entrava nella Rotonda del Campidoglio, i medici non poterono fare altro che constatare la sua morte.

Ai funerali di Kennedy a Washington parteciparono i massimi rappresentanti di oltre cento paesi del mondo – ventidue presidenti, dieci primi ministri, re e imperatori – e centinaia di migliaia di persone, oltre ai milioni che seguirono la cerimonia in televisione. Era una giornata molto fredda e ventosa. Il corteo partì a piedi dalla Casa Bianca diretto alla cattedrale di San Matteo, che distava circa un chilometro. Una delle immagini più famose di quella cerimonia e di tutta la giornata fu il saluto che fece al padre John F. Kennedy junior, che quel giorno compiva tre anni. Dopo il servizio funebre, una carovana di auto portò la bara dalla cattedrale al cimitero di Arlington.

A Dallas, settecento poliziotti in uniforme parteciparono ai funerali di J.D. Tippit in una chiesa battista. Nessuno invece andò alla cerimonia per la sepoltura di Lee Harvey Oswald, a parte i suoi parenti più stretti: non si presentò neppure il pastore luterano che inizialmente aveva dato la sua disponibilità a celebrarla. La bara fu portata all’unico cimitero che aveva accettato di accogliere il corpo dai cronisti che erano andati a seguire l’evento.

Redazione Il Post

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