di Sara Marzullo
Nel 2017, Ila Bȇka conosce Moriyama-San, un signore giapponese che vive in una sorta di foresta disseminata di cubi bianchi in mezzo a Tokyo.
Il modo in cui vive l’uomo, dormendo per terra, uscendo all’aria per lavarsi i denti, leggendo sul tetto o ascoltando il noise in una stanza sotterranea, lo conquista al punto di chiedergli ospitalità per una settimana, certo che in quella esperienza abitativa si nasconda un nuovo e più felice rapporto tra l’uomo e l’architettura. Lo scorso aprile Bȇka & Lemoine, la coppia di artisti-documentaristi formata dall’italiano Bȇka e dalla francese Louise Lemoine, sta intervistando online Boonserm Premthada, uno dei massimi architetti thailandesi, quando Premthada inizia a raccontare come la sua quasi totale sordità abbia modellato il suo modo di progettare spazi. Premthada racconta che da piccolo viveva in uno slum insieme ai genitori e alla sorella, uno spazio ristretto, in cui dormivano, cucinavano, studiavano.
Stava perdendo progressivamente l’udito, ma ricorda come il rumore delle padelle che sbattevano e delle zampette dei polli fosse per lui il segno che era tempo di svegliarsi. Il riverbero era il mattino, il riverbero era lo spazio. Mossi dal racconto i due partono col primo volo possibile per incontrare Boonserm Premthada e con lui fare un tour della sua Bangkok: lo hanno a disposizione per dodici ore, il tempo per farsi raccontare la sua visione dell’architettura. Nasce qui il loro nuovo film, Big ears listen with feet, presentato in anteprima internazionale al Copenaghen Architecture Festival (CAFx).
Per chi non conoscesse Bȇka & Lemoine, sono i due enfant terrible del documentario di architettura, che da quindici anni hanno rivoluzionato la grammatica e il linguaggio con cui filmiamo e raccontiamo lo spazio. Lo hanno fatto usando gli strumenti dell’ironia e della dissacrazione, ai danni dei grandi archistar che costruivano cattedrali incomprensibili o case bellissime e invivibili, più per l’effetto scenico che per chi in realtà quei posti doveva viverli o mantenerli: insieme hanno decostruito le architetture (e un po’ l’ego) di architetti come Rem Koolhaas e Renzo Piano, il Guggenheim di Bilbao di Gehry, la vita aspirazionale e ballardiana dentro il Barbican di Londra. Hanno preso il video di architettura e lo hanno reso un documentario narrativo, uno strumento appuntito capace di intaccare la superficie liscia e patinata delle riviste di architettura, in cui tutto sembra sempre perfetto e impeccabile.