
O meglio il “greko”, una varietà che esiste ancora in alcune enclavi linguistiche dell’Aspromonte, e che ha un futuro incerto
di Antonio Russo
Redazione Il Post
Mimmo Nucera aveva 15 anni quando per la prima volta lesse un testo scritto nella lingua che si parlava nel suo paese, Gallicianò, alle pendici meridionali dell’Aspromonte: fino a quel momento l’aveva sempre soltanto ascoltata. Lo ricorda come un momento emozionante, ora che di anni ne ha 72: era il 1968, e aveva tra le mani due fogli ciclostilati scritti in greco con lettere dell’alfabeto latino. Fu una delle prime iniziative dell’associazione “La Jonica”, fondata a Reggio Calabria dai due storici e filologi calabresi Franco Mosino e Domenico Minuto, per valorizzare la lingua secolare della comunità grecofona di Gallicianò, Bova, Roghudi, Roccaforte del Greco e altri borghi dell’Aspromonte.
Mosino e Minuto, all’epoca insegnanti liceali di latino e greco a Reggio Calabria, si erano incuriositi notando che alcuni loro studenti del primo anno parlavano una varietà di greco, con circospezione e riluttanza. Era usata in casa nei paesi da cui quei ragazzi provenivano, tramandata soltanto oralmente. Fuori da quel contesto tendevano a non parlarla per paura di essere malvisti o emarginati, e di vedersi affibbiati i nomignoli paddéchi (“scemi”) o parpàtuli (“persone a spasso”), comunemente attribuiti a chi era cresciuto in montagna e parlava quella lingua.
Oggi nota come greco di Calabria o greko – per distinguerla sia da una varietà simile parlata nel Salento e detta griko, sia dal greco moderno – è tra le lingue considerate dall’Unesco in «grave pericolo» di estinzione. La comunità che la parla è una delle minoranze linguistiche storiche riconosciute in Italia, ma è da tempo frammentata e dispersa per effetto di alluvioni, frane e terremoti risalenti agli anni Settanta, e di un progressivo spopolamento dei borghi. Ne fanno parte solo poche centinaia di persone, quasi tutte anziane, perlopiù sparpagliate tra Gallicianò, Bova, Condofuri, Roghudi Nuovo e pochi quartieri di Reggio Calabria.
Raffaele Nucera, 96 anni, e Domenico “Mico” Trapani, 84, a Condofuri Marina, sabato 8 marzo 2025
Il greko è parlato fluentemente ma raramente dalle generazioni più anziane: i loro figli lo comprendono in parte, e i nipoti poco o niente. “Nipote” è una di quelle parole per cui in greko, come in altre lingue, se ne usano due diverse: angòni, per definire il nipote rispetto ai nonni, e anispìo, per il nipote rispetto agli zii. Diversi termini derivano dal greco arcaico, come agolèo (“barbagianni, uccello notturno”) dal greco antico αιγωλιός: parole che in Grecia sono rare o del tutto scomparse da tempo.
In generale molte parole greke sono una preziosa testimonianza storica della particolare relazione della comunità con l’ambiente. Ci sono decine di parole per definire le capre, la principale e più importante tipologia di allevamento dell’Aspromonte, tutte diverse a seconda dell’età, del colore del manto o di altri aspetti dell’animale. «A Gallicianò non abbiamo invece una parola per definire l’arcobaleno», dice Mimmo Nucera: si usa un’espressione alternativa, stàri ti Patrùna, che significa “la tela della Madonna”.
La familiarità con l’Amendolea, il grande fiume che attraversa l’Aspromonte meridionale per poi sfociare nella marina di Condofuri, ha avuto un’influenza sulle parole tradizionalmente utilizzate nei borghi per definire il mare, invece molto meno familiare. A Gallicianò infatti non si dice thàlassa, ma rèma, che significa propriamente “corrente”.
I tentativi di recuperare e valorizzare il greko sono oggi portati avanti da associazioni nate dopo La Jonica, tra cui il circolo di Bova Marina Jalò tu Vua (“marina di Bova”). Tra le varie iniziative dell’associazione ci sono traduzioni in greko di libri e opere teatrali, corsi di lingua estivi (to ddomadi Greko, “la settimana Greka”) e scambi culturali con la Grecia, con Cipro e con altre comunità grecofone, inclusa quella pugliese.
«Greko, griko e greco moderno si differenziano per alcune parole e per aspetti fonetici e sintattici, ma essendo tutt’e tre lingue greche moderne è comunque possibile capirsi, parlando lentamente», spiega Selene Gatto, una delle giovani parlanti di greko che lavorano nell’associazione, laureata in lingue, culture e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Lei e le altre persone del gruppo comunicano abitualmente in greko tra loro e con gli anziani originari dei paesi grecofoni, spesso coinvolti anche nelle attività didattiche e di ricerca.
Uno di loro, Domenico “Mico” Trapani, è vedovo della poeta di Roghudi Francesca Tripodi, le cui centinaia di poesie e lettere scritte in greko furono documenti preziosi per gli studi filologici di Minuto e Mosino. Prima di loro, fin dagli anni Venti, un altro importante linguista si era occupato estesamente del greco parlato in Calabria: il tedesco Gerhard Rohlfs, a cui è peraltro dedicato il museo etnografico della lingua greco-calabra a Bova.

Un cartello che riporta le molte parole utilizzate per definire le capre in greko, esposto al museo etnografico “Gerhard Rohlfs” a Bova (Selene Gatto)
Sulle origini del greko, che fu la lingua parlata dalla popolazione di diversi borghi aspromontani fino all’inizio del Novecento, circolano principalmente due ipotesi: una arcaista e una bizantinista. La prima, sostenuta da Rohlfs, è che risalga all’epoca della colonizzazione dell’Italia meridionale da parte degli antichi Greci a partire dall’VIII secolo a.C. La seconda è che derivi dalla lingua parlata dalle popolazioni arrivate dall’Impero bizantino in diverse ondate tra il VI e il XI secolo d.C. (il greco fu la lingua parlata in gran parte della regione fino al Cinquecento). Una terza ipotesi, sostenuta da Mosino, tiene insieme le prime due, ed è che il greko sia il risultato di continue stratificazioni linguistiche di epoche differenti.
Anche se stigmatizzato, perché associato a un basso status socioculturale, il greco parlato in ampie aree dell’Italia meridionale era convissuto per secoli insieme all’italiano e ai dialetti locali, solo in forma orale. Poi, nel Novecento, l’italianizzazione del paese durante il fascismo, l’influenza dei mass media, le emigrazioni e l’affermazione di nuovi modelli economici e sociali contribuirono a eradicare il greco anche dalle comunità dell’Aspromonte in cui era esistito più a lungo. I genitori smisero di usarlo con i figli, per dare loro maggiori opportunità lontano dai borghi, in città, dove il greko era considerato la lingua della popolazione contadina.
Uno dei primi obiettivi dell’associazione “La Jonica” alla fine degli anni Sessanta fu spiegare ai ragazzi che «non dovevano vergognarsi di parlare greko», ricorda Nucera. Il lavoro dell’associazione fu fondamentale anche per la costruzione della strada verso i paesi grecofoni dell’Aspromonte, la maggior parte dei quali era in territori geograficamente isolati e difficili da raggiungere. Come altre popolazioni costiere della Calabria, anche quelle grecofone si erano spostate nell’entroterra montuoso nel corso dei secoli dopo la fine dell’Impero bizantino, per difendersi dalle invasioni e dalla pirateria.
Nella seconda metà del Novecento la valorizzazione delle origini greche delle comunità montane dell’Aspromonte, riferisce ancora Nucera, passò anche attraverso la riscoperta e il recupero di ritualità greco-ortodosse e di antiche chiese e monasteri bizantini abbandonati e in rovina.
Mimmo Nucera legge e traduce la prima strofa di un antico canto greko su una coppia di amanti distanti, incisa su una targa con dei prolungamenti che vibrano quando il vento soffia, a Gallicianò, sabato 8 marzo 2025
Nel libro Voci del silenzio: sulle tracce delle lingue in via di estinzione, la linguista Suzanne Romaine e lo psicologo comportamentale Daniel Nettle scrivono che le lingue «non sono esseri viventi che possono nascere e morire, come le farfalle e i dinosauri». Una lingua non è un’entità tangibile né autosufficiente, perché può esistere solo dove esiste una comunità che la parla e la trasmette. E una comunità di persone può esistere solo dove dispone di un ambiente in cui vivere e dei mezzi per guadagnarsi da vivere.
A Gallicianò, uno dei più antichi borghi ancora popolati da una comunità che parla greko, abita una trentina di persone. C’è un bar nella piazza, frequentato perlopiù la domenica, quando le persone della marina di Condofuri salgono in paese a visitare parenti o amici, e durante l’estate, quando il borgo diventa un’apprezzata meta di ricercatori ed escursionisti. I cartelli riportano indicazioni in tre lingue: in greko, tradizionalmente scritto con caratteri latini, in italiano e in greco moderno (un gruppo di giovani dell’associazione Jalò tu Vua è da tempo impegnato anche in un lavoro di standardizzazione dell’ortografia).
Alcune persone delle generazioni più anziane attribuiscono la scomparsa del greko, oltre che ai profondi cambiamenti sociali che hanno interessato tutto il Sud Italia, a uno storico disinteresse delle istituzioni. Secondo diversi studiosi e associazioni conoscere la lingua e la cultura delle comunità greke è tuttavia fondamentale per comprendere e interpretare meglio le relazioni passate e presenti tra quelle comunità e il territorio.
Alle tradizioni greke è storicamente legata, per esempio, la produzione di coperte e altri indumenti dalla lavorazione della fibra della pianta della ginestra, diffusissima in ampie zone della Calabria e da tempo oggetto di nuovo interesse nell’industria tessile. È greka inoltre, per alcuni linguisti, l’etimologia stessa del toponimo “Aspromonte”, che secondo questa interpretazione conserverebbe le tracce di un’importante evoluzione dell’ambiente.
L’ipotesi più conosciuta è che la parola derivi soltanto dal latino e sia un riferimento esplicito all’asperità del territorio, in gran parte arido: l’Amendolea è oggi quasi completamente prosciugato. L’altra ipotesi, sostenuta da Rohlfs e da altri, è che il toponimo abbia origini bizantine e sia composto dalla parola latina mons (“monte”) e dall’aggettivo greco aspròs (“bianco”): un probabile riferimento alla neve un tempo presente ad alte quote nell’intero massiccio, che in epoca bizantina era peraltro considerato un tutt’uno con le altre aree montuose calabresi.
Parlare e studiare il greko, come vale per ogni altra lingua diversa dalla prima che si impara crescendo, dà l’opportunità di vedere le cose da prospettive diverse. Permette a volte di definire aspetti della realtà che in altre lingue nemmeno esistono, ma che una volta imparati hanno tutto un loro senso. «Kucciàmata!», esclama Gatto, citando come esempio proprio la parola greka utilizzata per definire l’insieme dei frutti non raccolti dagli alberi, perché troppo piccoli o troppo in alto