Un referendum sul grembiule a scuola, votato dai bambini

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Bambini con addosso dei grembiuli in una scuola di Roma, nel 2004 (FRANCO SILVI-ARCHIVIO / ANSA)

In una scuola elementare palermitana saranno i 400 studenti a decidere se continuare a indossarlo, dopo che alcuni se n’erano lamentati

In una scuola primaria di Palermo, in Sicilia, la preside ha annunciato che ci sarà un referendum per decidere se bambini e bambine debbano continuare o meno a indossare il grembiule. L’iniziativa è nata da una lettera che due quarte elementari hanno inviato alla preside stessa, Lucia Sorce, in cui chiedevano di poter smettere di indossare il grembiule perché scomodo.

Sorce, che presiede l’istituto da 18 anni, ha detto di aver ritenuto la proposta e le sue motivazioni legittime, ma che per cambiare il regolamento della scuola secondo lei sarebbe stato opportuno coinvolgere tutti gli alunni e le alunne della scuola, circa 400, visto che i firmatari della lettera erano solo una cinquantina. Ha così proposto un referendum con urne e scrutatori, per quello che ha presentato come un modo di «educare i bambini alla democrazia partecipata».

La scuola in questione è la “Rita Borsellino”, la stessa che pochi mesi fa è finita al centro di polemiche per via del fatto che durante una lezione di educazione stradale alcuni agenti della Polizia municipale avevano simulato l’arresto di una persona sparando quattro colpi a salve di fronte ai bambini.

L’organizzazione del referendum, coordinata dagli insegnanti, è un’attività scolastica in linea con tipi di compiti molto incoraggiati dai principi della pedagogia più recente: Sorce ha definito l’organizzazione del voto un “compito di realtà”, cioè un’attività in cui alunni e alunne immaginano di affrontare una situazione concreta che potrebbero vivere nella propria vita quotidiana, e il cui svolgimento serve a valutare non tanto le conoscenze, quanto le competenze e l’attitudine a collaborare con altre persone per raggiungere obiettivi comuni.

Alunni e alunne dell’istituto hanno già organizzato un’assemblea in cui si sono divisi in gruppi e si sono assegnati dei compiti: c’è chi preparerà le urne di cartone, chi creerà e disegnerà le schede elettorali con il quesito referendario (non ci sono informazioni su come sarà scritto di preciso, né su quando si voterà esattamente), chi creerà le locandine con gli slogan per invitare bambini e bambine al voto, da appendere nei corridoi.

L’utilizzo del grembiule è un argomento ciclicamente discusso in Italia quando si parla di scuola, anche perché non c’è una regola uniforme: sono le singole scuole a darsi le proprie regole. Un po’ come per i voti, discutere di grembiule diventa sempre un modo per contrapporre visioni diverse della scuola e talvolta politicizzate: una più incentrata sulla disciplina, l’altra sull’autonomia e il rispetto della diversità.

L’utilizzo del grembiule viene difeso anche come un modo per non accentuare le differenze, specialmente sociali ed economiche, tra i bambini, rendendo la scuola un ambiente più paritario; chi difende il secondo approccio ritiene che l’assenza di grembiuli incoraggi un modo di vivere la scuola non omologato, più rispettoso delle identità individuali, e in generale orientato a un approccio più libero e meno frontale all’apprendimento. Le discussioni riguardano anche il colore dei grembiuli: in molti casi sono ancora rosa per le bambine e azzurri per i bambini, un’associazione che rimarca stereotipi di genere che per molti andrebbero superati.

Le cicliche discussioni sull’opportunità o meno di indossare i grembiuli a scuola hanno anche ragioni storiche, e radicate: in Italia l’utilizzo di uniformi a scuola fu particolarmente incoraggiato durante il regime fascista, con divise diverse a seconda delle organizzazioni giovanili a cui erano assegnati gli studenti sulla base dell’età (come i Balilla, Figli della lupa, Piccole italiane). Fu poi molto contestato con l’arrivo del Sessantotto, l’anno simbolo del periodo della storia italiana e più in generale occidentale in cui movimenti di massa di vario tipo contestarono gli apparati di potere del tempo e i suoi simboli culturali. Fu in quel contesto che lo scrittore, pedagogista, giornalista e poeta Gianni Rodari criticò l’utilizzo dei grembiuli con una frase spesso ripresa ogni volta che si discute di questo argomento: «La scuola non è una caserma».

Oggi la discussione sui grembiuli a scuola è ancora molto radicata in queste divisioni, e quindi molto politicizzata: negli ultimi anni l’utilizzo dei grembiuli è stato difeso, tra gli altri, da Maria Stella Gelmini quando era ministra dell’Istruzione durante il terzo governo di Silvio Berlusconi, e quando faceva ancora parte del partito di centrodestra Forza Italia, e più recentemente da Matteo Salvini.

Nella lettera inviata alla preside Sorce, i bambini e le bambine hanno detto di trovare il grembiule scomodo soprattutto quando fa caldo, perché impedirebbe loro di muoversi liberamente. Nella lettera, scritta probabilmente con l’aiuto degli insegnanti, hanno scritto anche che non ritengono di dover indossare il grembiule perché «Non dobbiamo per forza essere tutti uguali perché ognuno è diverso».

I bambini e le bambine hanno inoltre chiesto di limitare l’utilizzo del grembiule ad alcuni momenti specifici in cui indossarlo può essere utile per ragioni pratiche: a mensa, mentre curano l’orto scolastico o durante le lezioni di arte, per non sporcarsi, o quando vanno in gita fuori dalla scuola per essere riconoscibili. Le due classi che hanno scritto la lettera hanno già iniziato a utilizzarlo in questa maniera, con una sorta di sperimentazione che va avanti mentre si organizza il referendum.

Redazione Il Post

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