Lo ha scritto il quotidiano “Domani”, secondo cui ora rimane solo qualche medico, gli addetti alle pulizie e gli agenti delle forze dell’ordine
La cooperativa Medihospes, che gestisce i centri per migranti costruiti dal governo italiano in Albania, ha licenziato quasi tutti i dipendenti assunti per occuparsi delle due strutture. I licenziamenti saranno effettivi dal 15 febbraio. La notizia è stata data dal quotidiano Domani, che ha ottenuto una copia delle comunicazioni con cui la cooperativa ha informato i dipendenti. Sempre secondo Domani, al momento nei centri rimangono solo alcuni medici e addetti alle pulizie, oltre agli agenti delle forze dell’ordine italiane inviati per controllare l’area.
Medihospes è una cooperativa attiva in vari settori, tra cui l’accoglienza: gestisce vari centri in Italia, non è chiaro quanti, che in alcuni casi sono finiti al centro di inchieste giornalistiche o rapporti che ne documentarono le pessime condizioni. Lo scorso maggio aveva vinto una gara da 134 milioni di euro in quattro anni organizzata dal ministero dell’Interno per gestire i due centri in Albania: quello di Shengjin, dove è stato costruito un hotspot, e quello di Gjader, nell’entroterra, dove ci sono un centro di trattenimento da 880 posti, un centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e un piccolo carcere.
I centri erano stati attivati a ottobre del 2024, ma finora non sono quasi mai stati usati: il governo di Giorgia Meloni ha provato in tre occasioni a inviare dei gruppi di persone migranti (una sessantina in totale), ma il loro trattenimento non è mai stato convalidato dai giudici competenti e sono sempre tornati in Italia nel giro di pochi giorni.
In questi mesi Medihospes ha comunque assunto mediatori, operatori informatici, funzionari amministrativi, psicologi, informatori legali, autisti, medici e via dicendo (sul sito della cooperativa ci sono ancora moltissime posizioni aperte). Già a partire da fine novembre però, dopo i primi due tentativi falliti di trasferimento dei migranti, gran parte del personale aveva lasciato il paese per tornare in Italia.
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L’ingresso dell’hotspot di Shengjin (Valeria Ferraro/SOPA Images via ZUMA Press Wire)
Medihospes ha sede a Roma, ma proprio per agevolare la gestione dei centri di Shengjin e Gjader ha aperto un’altra sede a Tirana, la capitale dell’Albania. È questa seconda sede che ha inviato le lettere di dimissioni ai dipendenti dei centri, in cui si legge: «La informiamo che a causa di una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di Cassazione italiana, nonché dell’impossibilità momentanea di accogliere nuovi flussi di migranti, siamo costretti a sospendere temporaneamente il nostro servizio».
Finora i giudici non hanno convalidato i trattenimenti dei migranti perché credono che sarebbero in contrasto con le norme europee. In base agli accordi, in Albania dovrebbero andare solo i migranti provenienti da “paesi di origine sicuri”, ossia che rispettano i diritti e le libertà democratiche. Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha però stabilito che i paesi “sicuri” debbano esserlo per tutte le persone che ci vivono e su tutto il territorio, una definizione che secondo i giudici non si può applicare ai luoghi di origine dei migranti mandati in Albania, tra cui principalmente l’Egitto e il Bangladesh (la definizione che il governo italiano dà di “paesi sicuri”, peraltro, è molto problematica e viene estesa anche paesi che non sono davvero sicuri, come la Tunisia e la Nigeria).
A causa dei molti ostacoli legali al progetto, che finora ne hanno impedito l’attuazione, il governo italiano sta pensando di modificare gli accordi e cambiare la destinazione d’uso dei centri. Tra le ipotesi in considerazione c’è quella di trasformare entrambe le strutture in CPR, quindi dei posti in cui portare le persone migranti che sono già passate sul territorio italiano, la cui richiesta d’asilo è stata già valutata e respinta.
Non prima del prossimo 25 febbraio è attesa una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “paesi di origine sicuri”.