La crisi del distretto tessile più grande d’Europa

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Una donna al lavoro in un’azienda tessile di Prato nel 2019 (Gianni Cipriano/The New York Times)

A Prato molte aziende chiudono e le richieste di cassa integrazione aumentano: per molti è l’esempio più evidente di una crisi generale nel settore dell’abbigliamento

Nel distretto tessile di Prato, il più grande d’Europa, è da tempo in corso una crisi che nelle ultime settimane si è aggravata: molte aziende rischiano di chiudere, altre hanno già chiuso, sono aumentate le richieste di cassa integrazione per i dipendenti da parte di diverse imprese e c’è un generale calo della produzione per via del fatto che moltissime aziende sono rimaste senza ordini. Un recente reportage sul Corriere fiorentino ha descritto il distretto tessile di Prato un «deserto di capannoni».

«La crisi del distretto tessile di Prato è la dimostrazione più evidente della tempesta perfetta che sta attraversando la moda, in cui tutto quello che può andare storto sta andando storto», dice Antonio Mancinelli, giornalista, docente ed esperto di moda. La crisi in corso riguarda sia la moda di lusso che marchi meno costosi, e oltre che al settore industriale sta creando molti problemi anche a quel che è rimasto di quello artigianale, che è in crisi ormai dall’inizio degli anni Duemila. Le cause hanno a che fare col calo delle esportazioni dovuto alle guerre in corso, ma anche con un cambio delle abitudini di chi compra.

A Prato questi problemi si sono acuiti in maniera particolare e senza precedenti, anzitutto per via dell’estensione del distretto: qui è concentrata parte della filiera produttiva di tantissimi marchi, con oltre 130mila posti di lavoro e una tradizione tessile storica e radicata. Negli ultimi anni, sempre per motivi legati a questa crisi, del distretto di Prato si era parlato anche per il sistema di sfruttamento della manodopera cinese, che esiste soprattutto all’interno di aziende cinesi: «In molte delle aziende ancora attive lo sfruttamento è ancora tutto lì: non è cambiato nulla», dice Juri Meneghetti, segretario generale della Filctem Cgil Prato Pistoia.

Sull’aggravamento della crisi nel distretto tessile ci sono dati molto chiari: secondo l’ISTAT, l’istituto italiano di statistica, nei primi sette mesi del 2024 la produzione è calata del 10,8 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In poco più di due anni, da maggio del 2022 a luglio del 2024, il calo è stato del 25 per cento, ancora più accentuato. Alcuni imprenditori di Prato intervistati dal Corriere della sera hanno parlato di cali del fatturato fino al 90 per cento, di magazzini pieni di prodotti invenduti dell’anno precedente, di aziende chiuse perché non riuscivano a pagare affitto e bollette.

Già a dicembre del 2023 nel distretto di Prato i lavoratori in cassa integrazione erano oltre l’8 per cento (i dati sono dell’Istituto regionale programmazione economica della Toscana, IRPET). Le richieste di cassa integrazione sono ulteriormente aumentate negli ultimi mesi, in alcuni casi per periodi previsti fino a dicembre. È un dato significativo: la cassa integrazione è una misura che prevede il pagamento parziale, da parte dello Stato, di lavoratori momentaneamente sospesi dalla propria azienda, o che lavorino a orario ridotto, in periodi di difficoltà. Il periodo in cui è stato registrato il maggior numero di richieste di cassa integrazione è proprio quello in cui di solito il carico di lavoro è più intenso, in cui le aziende ricevono il maggior numero di commesse.

La crisi in corso è un problema soprattutto per le imprese del settore dell’artigianato, meno tutelate delle aziende del settore industriale (sono due categorie diverse con regolamentazioni in parte diverse): chi ha esaurito la cassa integrazione nel settore industriale ha ancora a disposizione ammortizzatori sociali straordinari, come la cassa integrazione straordinaria. Gli artigiani hanno a disposizione solo il fondo FSBA (Fondo di Solidarietà Bilaterale dell’Artigianato): «la copertura è inferiore rispetto alla cassa integrazione ordinaria, e soprattutto finito quello non ci sono altri ammortizzatori sociali», dice Meneghetti.

Sonia Gonnelli, stilista fiorentina e fondatrice del marchio BYE (Be Your Essence), lavora da anni con gli artigiani del distretto tessile di Prato per produrre i propri capi. Dice che negli ultimi tempi ha avuto riscontri molto concreti sull’aggravamento della crisi e sulle sue conseguenze sugli artigiani.

Per il suo marchio ha prodotto per molti anni capi d’abbigliamento rifiniti con alcuni nastri prodotti da un nastrificio di Prato che li faceva col telaio, a mano, e altri dotati invece di frange, sempre fatte a mano: «Entrambe le imprese artigiane, che in qualche modo erano riuscite a sopravvivere fin qui, di recente hanno chiuso perché non ricevevano più commesse e non riuscivano a starci coi costi, e a pagare affitto e bollette dei loro spazi». Gonnelli ora si rifornisce dei nastri e delle frange in aziende che lavorano con macchine industriali anziché col telaio: li definisce «nastri più piatti, più banali e “senza anima”».

La crisi del settore tessile, di cui il caso di Prato è l’esempio più evidente, è il prodotto di una concomitanza di circostanze e cause economiche, politiche e culturali.

Quella che è stata più citata è l’instabilità economica globale provocata negli ultimi anni dalle varie guerre in corso. L’indebolimento di una serie di economie straniere, o l’interruzione di relazioni commerciali con alcuni paesi (come la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina) hanno provocato un netto abbattimento delle esportazioni verso l’estero, che per il settore tessile italiano sono sempre state la principale fonte di entrate economiche.

A questo va aggiunto l’aumento del costo delle materie prime, e quindi una crisi nel loro approvvigionamento. «L’incertezza economica fa sì che chi può ancora spendere dei soldi in abbigliamento prediliga prodotti più duraturi, come i gioielli d’oro o d’argento, oppure gli accessori, che durano di più dei vestiti e passano più difficilmente di moda», dice l’esperto di moda Antonio Mancinelli.

Nella crisi ha avuto un ruolo anche la Cina, sia per le importazioni che per le esportazioni. Nel primo caso perché negli anni è aumentata l’importazione di filati dalla Cina, meno costosi anche per via delle condizioni di lavoro forzato in cui in molti casi sono prodotti, e generalmente meno pregiati. Per quanto riguarda le esportazioni c’è stata una generale diminuzione della vendita di prodotti alla Cina, che per molto tempo è stata un importante sbocco di mercato per il settore tessile italiano. La Cina attraversa da tempo grosse difficoltà economiche che hanno portato a una diminuzione degli acquisti e, secondo Mancinelli, a un ripiegamento sul mercato interno.

La crisi del settore tessile è stata acuita anche dall’ingresso sul mercato di una serie di marchi a bassissimo costo, come Temu e Shein, che hanno iniziato a fare concorrenza ad altri marchi che producono parte dei propri capi nel distretto tessile di Prato: «Parliamo di marchi che hanno prezzi così bassi da risultare inquietanti, per l’evidente taglio che c’è sul costo del lavoro», dice Mancinelli.

C’è stata infine una generale evoluzione nei consumi. A Prato, in generale, è concentrata ormai da tempo la produzione del cosiddetto “fast fashion”, cioè la produzione tessile a basso costo, pensata per la distribuzione di massa: «Oggi anche il “fast fashion” attraversa una sua crisi: le generazioni più giovani sono più attente alla sostenibilità ambientale, e sta avendo un enorme successo il vintage, con prodotti di miglior qualità, più originali e a prezzi che spesso sono altrettanto bassi», dice Mancinelli.

Redazione IL POST

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