Le ragioni storiche e culturali della caratteristica comunicativa più universalmente associata agli italiani sono piuttosto difficili da spiegare
Dopo la finale degli Europei di calcio vinta nel 2021 dall’Italia contro l’Inghilterra circolò un video che, per molte persone straniere, era una rappresentazione efficacissima del modo di comunicare italiano. Mostrava i calciatori della Nazionale nel corridoio che conduceva al campo, nell’intervallo, discutere del primo tempo appena concluso utilizzando una teatrale e insistente gestualità, ricorrendo in diverse occasioni al modo più italiano di muovere le mani: quello talvolta identificato con il nome “mano a borsa” o “mano a pigna”, per esprimere scetticismo o un qualche tipo di interrogativo.
Anche se non ha un nome univoco, è un gesto che chiunque associa all’Italia, e non è il solo conosciuto anche nel resto nel mondo. Ma sono molti di più i gesti che hanno un significato solo per le persone italiane, per le quali non ci sono dubbi: lisciarsi il mento col dorso della mano vuol dire qualcosa di simile a «non me ne importa nulla»; formare una forbice con l’indice e col medio serve a suggerire all’interlocutore di “tagliare corto”; darsi una manata in fronte significa che ci si è dimenticati qualcosa; unire gli indici delle mani serve a indicare il sospetto che due persone abbiano un qualche tipo di relazione amorosa; il gesto dell’“aumma aumma”, quello in cui la mano traccia dei cerchi con le dita rivolte verso il basso, indica una situazione che appare un po’ losca, e così via.
Secondo Isabella Poggi, docente di psicologia presso l’Università Roma Tre, gli italiani utilizzano nelle loro conversazioni quotidiane circa 250 gesti, che sorprendentemente sono conosciuti dalla stragrande maggioranza degli abitanti della penisola, nonostante le non trascurabili differenze dialettali e culturali che distinguono le varie regioni.
Non è chiaro però quando l’abitudine di gesticolare sia diventata così diffusa, differenziando la comunicazione italiana da quella del resto del mondo. Una delle ipotesi è che le popolazioni che abitavano i territori che oggi corrispondono all’Italia abbiano iniziato ad attribuire dei significati molto precisi ad alcuni gesti tra il XIV e il XIX secolo, durante le occupazioni straniere da parte di Austria, Francia e Spagna. In quel contesto i gesti avrebbero risposto a una necessità molto pragmatica, ossia consentire alle persone di scambiarsi informazioni senza farsi capire dagli invasori.
Un’altra teoria, sempre meno accettata in ambito accademico e relativa soprattutto ai gesti di uso comune a Napoli, è quella esposta dall’archeologo ed etnografo italiano Andrea de Jorio e alla sua opera del 1832 La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, in cui evidenziò delle similitudini tra i gesti impiegati dai suoi contemporanei e quelli raffigurati nei motivi di alcuni vasi greci antichi che trovò nell’area di Napoli: secondo De Jorio, quindi, la tendenza a gesticolare sarebbe stata ereditata dall’antica Grecia.
In un saggio pubblicato sulla rivista di linguistica Gesture nel 2004, il linguista britannico Adam Kendon confutò parzialmente le teorie di De Jorio. Kendon spiegò che «sebbene ci siano delle prove qua e là che suggeriscono che almeno certi gesti sono rimasti uguali nella forma e nell’uso per un lungo periodo di tempo», come per esempio scuotere la testa per dire «no», «dall’altro lato una serie di gesti descritti da de Jorio non sono più usati».
Kendon citò per esempio un gesto, molto utilizzato nell’antica Grecia e oggi scomparso, in cui il pollice e l’indice venivano stesi, tenuti ad angolo retto e ruotati avanti e indietro davanti alla bocca aperta «per indicare la mancanza di cibo e forse più genericamente la mancanza di un bene necessario». Tuttavia, sottolineò Kendon, è molto probabile che da quel gesto ne sia stato derivato un altro di uso comune in Italia: quello in cui pollice e indice ruotano rapidamente avanti e indietro, e che significa «niente».
Secondo Kendon, a Napoli la gestualità divenne di uso comune per via del fatto che, in passato, gli spazi pubblici erano popolati soprattutto da persone che trascorrevano la maggior parte della giornata all’aperto, e che «la folla degli spazi pubblici napoletani, almeno fino ai recenti tempi moderni, non era fatta di gente anonima». Le persone che interagivano quotidianamente spesso erano imparentate tra loro, o comunque legate da rapporti di amicizia: era piuttosto difficile incontrare qualcuno di sconosciuto o poco familiare, insomma.
Per questo motivo, ipotizzò Kendon, la «mancanza di anonimato» finì per incoraggiare «uno stile comunicativo molto informale, che è fortemente dipendente dal contesto e al quale ben si adatta l’uso di espressioni gestuali». Nell’intervista al New York Times, Poggi ipotizzò che sviluppare una gestualità prominente potesse anche essere anche una forma di competizione per attirare l’attenzione in un contesto urbano molto affollato, magari per marcare il proprio territorio.
A marzo Maria Graziano e Marianne Gullberg, docenti di linguistica all’università di Lund, in Svezia, hanno pubblicato una ricerca che ha analizzato il diverso modo di gesticolare che italiani e svedesi hanno quando devono raccontare una storia. Per farlo hanno fatto vedere a due gruppi divisi per nazionalità (uno italiano e uno svedese) una puntata di Pingu, una popolare serie animata svizzera degli anni Novanta. Successivamente è stato chiesto a ciascun partecipante di raccontare ciò che aveva visto nella puntata a un amico, utilizzando sia le parole che i gesti.
«Abbiamo mostrato a entrambi i gruppi lo stesso materiale, e abbiamo scelto Pingu per via di una sua peculiarità: in questo cartone animato i personaggi non parlano, e quindi i partecipanti hanno avuto la possibilità di raccontare quello che avevano visto in maniera spontanea, anche perché non disponevano di dialoghi da citare», dice Graziano. Da un lato, la ricerca ha confermato uno stereotipo che fino a ora non era mai stato dimostrato empiricamente: «abbiamo confermato qualcosa che ipotizzavamo, ossia che gli italiani gesticolano di più, quasi il doppio degli svedesi, 22 gesti ogni cento parole i primi, 11 gesti ogni cento parole i secondi».
Tuttavia, precisa Graziano, l’aspetto interessante della ricerca è un altro: «abbiamo riscontrato delle differenze significative nell’uso di questi gesti». I risultati hanno dimostrato che svedesi e italiani usano due strategie retoriche differenti: «in una si utilizzano gesti più aderenti agli aspetti concreti del racconto, nell’altra gesti meno didascalici», spiega. In sintesi, mentre gli svedesi scelgono soprattutto gesti di tipo rappresentativo, ossia che tendono a descrivere le forme degli oggetti o le azioni compiute da un determinato personaggio, gli italiani usano principalmente gesti che lei definisce “pragmatici”, ossia che servono a presentare l’argomento all’interlocutore.
Per esempio, ricorda Graziano, i due gruppi indicavano una delle sequenze del cartone animato (che mostrava la madre di Pingu mentre infilava una teglia di biscotti nel forno) in due modi abbastanza diversi. Gli svedesi prediligono il modo rappresentativo, mimando l’azione di stendere la pasta con un matterello, mentre gli italiani sfruttano gesti che non riproducono necessariamente le azioni descritte, ma servono più ad accompagnare il ritmo del discorso e a rafforzarne l’efficacia argomentativa.
Graziano sottolinea che, sebbene la gestualità italiana sia una peculiarità famosa in tutto il mondo, «oggi non conosciamo nessun popolo che non gesticoli: la gesticolazione è un tratto dell’essere umano e del parlato, ed è indipendente da come i popoli e le lingue si sono sviluppati».
Inoltre, prosegue Graziano, «diverse ricerche nell’ambito della cosiddetta psicolinguistica dimostrano che ci sono delle aree di cervello che vengono attivate contemporaneamente quando si gesticola e quando si parla. Quando si prova a esprimere un concetto, vengono attivate sia la modalità manuale che quella verbale. La gestualità è un tratto distintivo della facoltà del linguaggio, insomma. Come questo sia legato ai diversi usi e costumi dei popoli è difficile da dire».