La stagione della Comunità Ebraica di Casale Monferrato riprende sabato 31 agosto con l’inaugurazione di una mostra di grande impatto emotivo. Durante le vacanze come sempre la Sinagoga e il Museo Ebraico si sono “fatti belli” con lavori ordinari di pulitura e manutenzione, ma l’attività culturale non si è fermata, impegnata anche nel portare avanti la promozione della mostra che al MUST di Lecce vede esposte le lampade del Museo dei Lumi Casalese. Proprio in occasione della chiusura della mostra durante la Giornata Europea della cultura Ebraica vedranno interessanti novità legate alla peculiare raccolta casalese dedicata alle lampade di Chanukkah.
Per il momento sabato 31 agosto alle 21,30 si inaugura la mostra “Sordità e Indifferenza” di Vito Boggeri e Alberto Raiteri. E’ un progetto che vuole raccontare la Shoà attraverso l’arte e il linguaggio espresso da due personaggi diversi per età e formazione, ma con un comune desiderio di cercare sempre nuove forme espressive. Da una parte Alberto Raiteri, Casalese classe 1966 diplomatosi allo IED, una formazione di illustratore editoriale e pubblicitario ma più di recente, pittore, drammaturgo dall’altra Vito Boggeri uno tra i più interessanti esponenti dell’arte contemporanea italiana nato nel 1939. Un convinto sostenitore della accurata indagine tecniche artistiche moderne e tradizionali. Boggeri si è confrontato spesso con i nuovi esponenti della Pop Art: verso la prima metà degli anni Settanta del Novecento la sua produzione cominciò a confluire nelle moderne sperimentazioni tecniche e formali, passando dalla pittura alla fotografia orientandosi verso l’Arte Concettuale. La fotografia, il video, il corpo ed altri mezzi espressivi diventarono un solo “concetto”, proiettato verso la più semplice delle definizioni “boggeriane”: “La cosa che conta in un’opera è l’idea”. Riavvicinandosi alla pittura ed al suo immaginario, il contrasto armonico tra realtà e sogno, è stato il leit motiv della produzione dell’ultimo ventennio.
“Quando, poco più di un anno fa, mi venne proposto di realizzare un lavoro sulla Shoah, non conoscevo Vito Boggeri – Spiega Alberto Raiteri – Mi incuriosiva sapere cosa potesse accomunare il mio lavoro a quello di un artista che alla fine degli anni Settanta esponeva alla Franklin Fournace di New York, affiancando alcuni personaggi che sarebbero assurti, di lì a poco, all’empireo della Transavanguardia. Poi, l’estate scorsa ci incontrammo e ritrovai nel suo lavoro quel segno forte, pur semplice ed essenziale, e quella fisicità espressa dalla materia sul cartone che io stesso ho sempre ricercato nella mia pittura. Questo mi investì, in un sol tempo, di orgoglio e di responsabilità, soprattutto pensando alle difficoltà che avrei potuto incontrare nell’affrontare con intenzionale delicatezza la violenta brutalità che connota la Shoah. Il coinvolgimento emotivo, inevitabile, da un lato e il rischio elevato di cadere nella retorica e non volendo riproporre uno sterile riassunto della Storia, ma suggerire una nuova visione della Shoah, ho deciso di utilizzare altri simboli, appartenenti alla nostra realtà e pertanto facilmente riconoscibili. per questo, ho scelto gli animali, in quanto essi rappresentano un punto forte di attenzione all’interno della nostra società. Quel fervore manifestato nell’esprimere il nostro sdegno o disappunto nei confronti di un cucciolo abbandonato o maltrattato, segno evidente di una società che si sta evolvendo verso il traguardo tanto ambito della civiltà, non viene sempre espresso tuttavia nei confronti dei nostri simili ai quali manifestiamo, adottando criteri fortemente discriminatori, un’aperta ostilità. Ciò mi ha indotto a pensare che gli animali riescano a smuovere i nostri sentimenti più degli esseri umani e a me interessava raggiungere in modo rapido e incisivo la mente e il cuore delle persone per proporre una riflessione sul quel “grande male” che ad un certo punto avvolse tutto il popolo ebraico e lo trascinò, insieme ad altri, in una delle pagine più oscure e terribili della Storia.
Ho dedicato parecchi mesi alla ricerca di un confronto, sul tema della Shoah, con persone spesso incontrate per caso, lungo la strada o nei bar, nel tentativo di estrarre l’autentica radice del loro pensiero. Si è così evidenziato un distacco da attribuirsi prevalentemente a quella sordità e indifferenza, identificata proprio da Primo Levi in una sua lettera, che oggi come allora rappresenta uno dei volti più temibili di quello stesso Male. È per questa ragione che ho voluto appendere dei teli di juta all’ingresso dello spazio espositivo, per costringere, un po’ forzatamente, lo spettatore ad entrare nella dimensione della Shoah. Accedere alle opere esposte diventa così un atto deliberato, come fu un atto deliberato il non voler vedere e comprendere quanto, ai tempi dei fatti, stava accadendo”.
“Dipingere i suoni, le voci della Shoah, cercando di trovare dentro se stessi i “colori” del dolore, può sembrare un azzardo; il rischio è quello di cadere in un puro esercizio stilistico di retorica, che tanto è aliena all’arte di Vito Boggeri. Spiega invece Judica Dameri curatrice dell’opera di Boggeri. L’uso della scatola pittorica è vista come mezzo artistico per ricondurci a quelle valige ammassate, le une sulle altre, come quei corpi, le cui vite, le hanno portate strette tra le mani sin lì, per poi esserne private poiché nulla più avranno da custodire. Boggeri disegna, con una linea sottile e fragile, i due livelli dell’esistere: il buio dei colori grigi segna il sopravvivere di esistenze, che non sono più tali, ripiegate su se stesse; mentre, i colori, che sembrano essere stati dipinti alla flebile luce di nove candele accese come ad una festa, ne “illuminano” l’opera, e violento emerge il ricordo della “vita di ieri a quella festa”.
Il programma della serata prevede alle 21.30 un incontro informale con gli autori e poi la visita in anteprima della mostra che rimarrà aperta fino al 5 settembre (ingresso libero). Per l’occasione sarà anche letta una lettera inedita di Primo Levi, in occasione dell’anniversario dei 100 anni della sua nascita.
a.a.
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