Gli insegnanti di sostegno qualificati sono ancora troppo pochi

Soprattutto nelle regioni del Nord, dove quelli non specializzati e precari sono quasi la metà

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Alunni della classe 1B effettua un tampone salivare nella scuola secondaria Montale a Bollate (Milano), 11 maggio 2021. L'iniziativa prevede che ogni settimana, fino alla fine della scuola, verranno effettuati tamponi salivari in tre classi elementari e medie a campione delle scuole di Bollate (una per ogni istituto comprensivo) al fine di monitorare settimanalmente l'andamento del virus. ANSA/ANDREA FASANI

Negli ultimi tre anni nei rapporti dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sull’inclusione scolastica degli studenti con disabilità c’è un dato che ricorre: gli insegnanti di sostegno che hanno una formazione specifica per fare quello che fanno sono pochi. Nell’anno scolastico 2019/2020 erano poco più della metà, il 63 per cento del totale, nel 2020/2021 il 66 per cento, nel 2021/2022 il 68 per cento. Anche se in calo e con notevoli differenze tra le aree geografiche, questo dato mostra un problema molto discusso dai sindacati e dalle associazioni di settore, con conseguenze per le famiglie, per gli insegnanti e per l’intero sistema scolastico.

Succede infatti di frequente che insegnanti senza una formazione specifica ricevano incarichi di sostegno durante gli anni di precariato, con lo scopo di diventare insegnanti curricolari di ruolo. Spesso lo fanno tentando di colmare le lacune dovute alla mancanza di insegnanti più qualificati, e possono trovarsi a gestire casi complessi per cui non hanno un’adeguata preparazione. La causa principale della mancanza di insegnanti di sostegno qualificati sembra essere soprattutto la scarsa accessibilità della formazione, e il modo in cui funzionano graduatorie e percorsi di assunzione.

In Italia, tra scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria, ci sono circa 300mila studenti con disabilità, circa il 3,5 per cento degli studenti totali. Secondo i dati del 2021 del ministero dell’Istruzione, in Italia ogni insegnante di sostegno segue in media 1,5 alunni con disabilità: meno dei 2 indicati come riferimento dal decreto-legge 98 del 2011, perciò il problema non è tanto di quantità, ma di qualità.

Più in generale va detto che la normativa italiana sull’inclusione scolastica delle persone con disabilità è considerata un punto di riferimento nel mondo: nel 1977 con una legge considerata pionieristica l’Italia diventò il primo paese in Europa ad abolire le classi speciali per studenti con disabilità, includendoli così nel percorso scolastico comune a tutti.

Gli insegnanti di sostegno qualificati sono pochi soprattutto nelle regioni del Nord, dove sono il 53 per cento. Nelle regioni del Sud, invece, c’è più offerta di tirocini formativi e le graduatorie degli insegnanti sono in generale più lunghe per una domanda maggiore di posti di lavoro nella scuola: gli insegnanti di sostegno qualificati sono il 76 per cento.

Un altro problema è che in molti casi gli insegnanti di sostegno vengono assegnati in ritardo, ad anno già iniziato e con supplenze temporanee, proprio a causa della carenza di figure più qualificate. Secondo i dati degli ultimi anni le regioni con la situazione più critica sono state Friuli Venezia Giulia e Lombardia.

Andrea Sacchetti ha 37 anni e insegna filosofia alle superiori. Come molti altri, durante il precariato per diventare di ruolo nella sua materia è stato anche insegnante di sostegno: «Per me come per altri è stato un modo per non restare disoccupato un anno, soprattutto se non trovi una supplenza nella tua disciplina», dice. Sacchetti sostiene che fare l’insegnante di sostegno senza formazione possa essere però un’esperienza estremamente frustrante: «Anche mettendoci molto impegno, spesso a fine giornata ti rendi conto che sarebbe servito qualcuno con più formazione per fare bene quel lavoro».

Il tipo di lavoro richiesto a un insegnante di sostegno varia molto a seconda dei casi e del tipo di disabilità dell’alunno o dell’alunna, del livello di gravità e del fatto che la stessa disabilità può manifestarsi in modo assai diverso in base alla persona. Lo studente può seguire le attività in classe oppure in laboratori appositi, a seconda dei casi, e l’insegnante di sostegno non è lì solo per seguire lo studente assegnato: deve occuparsi di tutta la classe, per esempio gestendo le relazioni tra quello studente e il suoi compagni e compagne.

A volte chi fa sostegno senza una formazione può trovarsi a gestire casi delicati, e impara a farlo solo con l’esperienza: Daniele Auditore ha 34 anni ed è laureato in italianistica. È precario, fa l’insegnante di sostegno da un anno, e nel corso della sua esperienza gli è stato assegnato un ragazzo tetraplegico: «Era come interagire con una persona di 4 anni nel corpo di una di 18, senza sapere come fare», racconta. «Mi sono sentito profondamente inadeguato, ho rischiato un burnout e poi pian piano sono entrato in sintonia con lui, facendo tentativi, collaborando con colleghi più esperti, ascoltando suggerimenti e cercando di applicarli».

Spesso chi ha una docenza di sostegno senza formazione si dota di strumenti e formazione per farlo in modo autonomo, studiando la sera dopo una giornata di lavoro. Oppure pagandosi in maniera autonoma corsi di formazione. Altre volte a pagare la formazione sono le famiglie: Marinella Drudi, mamma di un ragazzo autistico e segretaria dell’associazione Voce all’autismo, dice che lei e suo marito hanno pagato corsi di formazione a diversi insegnanti che hanno fatto sostegno a loro figlio, tutti precari e in lista per diventare insegnanti curricolari.

Sacchetti e Auditore concordano sul fatto che fare un’esperienza di sostegno li abbia resi insegnanti migliori e più capaci anche nelle materie per cui hanno studiato. Erica Romano ha 37 anni, è laureata in storia dell’arte e fa l’insegnante di sostegno da quattro anni. Dice che ogni insegnante curricolare dovrebbe fare un’esperienza di sostegno, «per capire come gestire una classe in modo più inclusivo, lavorare con tipi di intelligenze diverse, cercare soluzioni alternative per raggiungere gli stessi obiettivi. E per capire che premiare un solo tipo di intelligenza, nell’insegnamento, è nocivo per tutta la classe».

In Italia, oggi, per diventare insegnanti di sostegno specializzati bisogna fare un master specializzante con tirocinio formativo attivo (TFA). Sono corsi attivati dalle università, con requisiti di accesso diversi a seconda del tipo di scuola (primaria o secondaria) e a numero chiuso (nell’ultimo ciclo i posti disponibili erano 29mila in tutto). Chi non ha questo titolo può rendersi disponibile per supplenze di sostegno temporanee per esempio attraverso la Messa a disposizione (MAD), una procedura che permette di venire inseriti in graduatorie da cui gli istituti scolastici attingono una volta terminati gli insegnanti specializzati. Dopo tre anni di sostegno non specializzato si viene inseriti nelle Graduatorie provinciali di supplenza (GPS) per il sostegno.

Benché non sia l’unica, una prima causa della mancanza di insegnanti di sostegno specializzati riguarda proprio l’accesso ai corsi di specializzazione: secondo diversi sindacati di categoria il numero chiuso previsto non è sufficiente a coprire i posti in organico necessari e non tiene conto del fabbisogno delle scuole. Per questo c’è chi chiede di ampliare l’accesso, o anche di rimuovere il numero chiuso.

Un altro problema evidenziato sono i costi: un TFA può costare intorno ai 3mila euro, «creando un’inevitabile selezione su base economica», dice Manuela Calza, segretaria nazionale del sindacato FLC-CGIL. C’è inoltre poca offerta di questo tipo di corsi nelle regioni in cui ce n’è più bisogno: oltre metà dei corsi dell’ultimo ciclo, l’ottavo, è stato attivato al Sud, quando il 70 per cento dei posti scoperti sul sostegno è al Nord.

Un secondo problema è legato alla rigidità dei sistemi di reclutamento degli insegnanti di sostegno specializzati. Sara Martelli, ricercatrice dell’Università di Pavia, è stata per anni insegnante di sostegno. Martelli ha una laurea in Scienze dell’educazione, una in Psicologia, un dottorato di ricerca in scienze dell’Educazione e della Formazione ed è stata docente a contratto di Didattica e Pedagogia speciale, ma non ha fatto il corso di specializzazione TFA. E non ha una laurea in scienze della Formazione primaria o un diploma magistrale preso prima del 2001, che sono abilitanti per il sostegno nelle scuole primarie, quelle in cui ha insegnato.

«Io e molti altri siamo “outsider” rispetto al sistema di graduatorie attuali» dice Martelli. «Siamo formalmente appaiati a chi non ha alcuna formazione psicopedagogica e possiamo essere reclutati solo attraverso le MAD, quindi in una costante situazione di precariato». Secondo Martelli una soluzione sarebbe creare graduatorie di formazione fatte sulla base dei percorsi di studio, permettendo di reclutare e poi magari stabilizzare moltissime persone formalmente non specializzate, ma che in realtà hanno competenze solide per fare questo mestiere.

Il risultato di tutto questo è che, soprattutto in alcune regioni, le graduatorie degli insegnanti di sostegno specializzati sono molto corte, i posti vengono rapidamente assorbiti e le scuole si rivolgono a insegnanti precari, nella maggior parte dei casi persone con più di trent’anni che cercano lavoro.

Le assegnazioni degli studenti vengono fatte dalle singole amministrazioni scolastiche e dagli stessi insegnanti di sostegno specializzati, quindi non esistono regole formali per cui uno studente particolarmente complicato venga assegnato a un insegnante con più esperienza. «Io cerco di prendere sempre in carico i casi più complicati e di lasciare i più semplici a chi non è formato, ma non tutti i miei colleghi fanno così», dice Angela Esposito, insegnante di sostegno specializzata e curatrice della pagina Instagram @sostengoconleidee.

I molti insegnanti di sostegno non specializzati spesso cambiano incarico ogni anno: questo causa discontinuità nel percorso scolastico degli studenti con disabilità e interrompe un lavoro di costruzione della relazione tra insegnante e studente che richiede sempre tempo e fatica per entrambi.

Ci sono diverse opinioni su come far fronte alla mancanza di insegnanti di sostegno specializzati: rendere i TFA più accessibili e i percorsi di reclutamento più flessibili sono due ipotesi, ma c’è anche chi ritiene che il problema sia proprio avere un “doppio binario” tra docenza comune e di sostegno. Evelina Chiocca, presidente del Coordinamento italiano insegnanti di sostegno (CIIS), ritiene che nel momento stesso in cui si fa «il passo avanti» di includere gli studenti con disabilità a scuola, il necessario punto d’arrivo di quel percorso di inclusione sia avere «tutti gli insegnanti formati per saper insegnare a tutti i tipi di studenti, con basi di competenza su diverse strategie e metodologie didattiche».

Secondo Chiocca questo sarebbe un punto di partenza «per una scuola veramente inclusiva», più della specializzazione su singoli tipi di disabilità che è un’altra delle proposte fatte in questi anni, ma che ha ricevuto alcune critiche. A questo proposito Chiocca cita il modello della cattedra mista, o incarico misto, incluso nel decreto legislativo 66 del 2017: prevede che per garantire l’inclusione scolastica il preside o la preside propongano ai docenti curricolari di svolgere anche attività di sostegno, ottenendo la specializzazione per farlo.

Redazione Il Post

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