Disabilità e scuola dal 1800 ad oggi

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La scuola, luogo per eccellenza del sapere a disposizione di tutti, ha conosciuto nei secoli una profonda trasformazione: da luogo inaccessibile al “diverso” a luogo dove partecipazione e inclusione dell’alunno disabile costituiscono una sfida quotidiana per legislatori, insegnanti, famiglie e perfino per gli alunni “normodotati” per i quali la presenza nella classe di un compagno disabile può costituire un’occasione straordinaria di arricchimento e di crescita.

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Immergersi nella tradizione vuol dire ricordare che i minorati, nel XVI e XVII secolo, suscitavano orrore ed erano considerati una minaccia per la società.
È la cultura illuministica, nella seconda metà del XVIII secolo, a produrre un’inversione di tendenza nella considerazione dei soggetti disabili. In Francia e in Inghilterra, ad opera di Philippe Pinel9 e William Tuke10, si realizzano le prime case di cura, in cui gli interventi a favore di un’assistenza sanitaria per i disabili sono garantiti dallo Stato.

Pinel, direttore del grande complesso psichiatrico della Salpêtrière a Parigi, fu il primo medico che si propose metodicamente di curare i pazienti psichiatrici gravi, e non solo di “custodirli” negli ospizi.
A William Tuke risale il primo esperimento di “pet teraphy“: ai malati mentali affidava la cura di animali di piccola taglia, nella convinzione che questa metodica avesse un effetto favorevole sull’autocontrollo.

Dal sauvage di Itard alla nascita della neuropsichiatria infantile

Suscita scalpore, all’inizio del 1800, l’opera di Jean Marc Gaspard Itard11 medico, pedagogista ed educatore francese, da molti considerato il padre fondatore della pedagogia speciale.
Itard, nella scuola per sordomuti di Parigi, si dedica alla riabilitazione educativa del “sauvage” dell’Aveyron, un ragazzo dall’apparente età di 12 anni, vissuto tra gli animali delle campagne francesi. L’educazione del “selvaggio” occupa l’intera vita di Itard.
Al selvaggio Itard dà anche un nome, Victor, con la volontà di attribuirgli un’identità.

Il suo intervento si pone l’obiettivo di dimostrare che è possibile curare il disadattamento, partendo dalla dimostrazione di assunti che oggi sembrano del tutto scontati, ma che erano rivoluzionari per l’epoca. Il medico francese si pone degli obiettivi da far raggiungere a Victor: inserirlo nella vita sociale; risvegliarne la sensibilità nervosa; aumentare i suoi rapporti con gli esseri circostanti; farlo parlare.
Anche se quest’ultimo obiettivo non fu mai raggiunto, l’opera di Itard ha avuto il merito di giungere a conclusioni che possono ancora oggi possono servire da guida:

  • In campo educativo non bisogna partire da situazioni oggettive lontane dalla realtà
  • È necessaria sempre una distinzione diagnostica e prognostica tra ritardo mentale cognitivo dovuto a menomazione, e ritardo derivante da isolamento socio-culturale
  • La relazione educativa deve avere un ruolo molto importante, soprattutto se si riferisce a soggetti con deficit

Come afferma Canevaro:

Sappiamo che dal ritrovamento del sauvage inizia un’avventura pedagogica che segna una vera e propria rottura epistemologica per l’educazione in generale e per quella degli handicappati in particolare
(Canevaro A., 1999)

A Itard si ispirarono molti studiosi dell’epoca e tra questi ricordiamo Edouard Seguin12, che sperimenta metodi di educazione differenziata per i soggetti disabili e istituisce in America tre scuole speciali.

Dall’Ottocento ai primi anni del 1900 piccoli passi in ambito educativo, sociale e lavorativo portano ad un miglioramento del livello di scolarizzazione e perfino i meno abili e gli handicappati possono entrare a far parte del ciclo produttivo.

Nel 1923 la Riforma Gentile costituisce per la prima volta nelle scuole elementari le “classi differenziali” per gli alunni che presentavano “anormalità di sviluppo”.
Nel 1933 nascono le “scuole speciali” per affetti da malattie contagiose, fanciulli anormali e minorati fisici, che si affiancano alle scuole per ciechi e per sordomuti, già esistenti.
È merito del neuropsichiatra Sante De Sanctis13 se i problemi dei fanciulli con handicap furono considerati in un’ottica diversa dal passato. De Sanctis, considerato il padre della neuropsichiatria infantile, costituì, alla fine del XIX secolo, e con la collaborazione di Maria Montessori un ospizio-scuola

dove i fanciulli furono raccolti dalla mattina alla sera, ogni giorno, per tutto l’anno, onde ricevervi il necessario nutrimento, le cure mediche, l’educazione fisica e morale, l’istruzione, il tutto adatto ai bisogni di ogni singolo alunno

In quest’ultima affermazione sembra quasi di cogliere il seme di quello che diventerà “Piano Educativo Individuale (PEI)” dell’attuale sistema scolastico.

Maria Montessori14 elaborò un sistema educativo destinato alle scuole materne e si interessò in modo particolare all’educazione dei bambini portatori di handicap, dirigendo a Roma la prima scuola ortofrenica.
Con passione e coerenza affermava che: …è inutile riformare la scuola e i metodi se a questa scuola e a questi metodi sfuggono appunto coloro che per la difesa sociale più ne sarebbero bisognosi! Qualunque metodo vale a rendere utile e morale un individuo sano e normale. La riforma che si impone è quella della scuola e della pedagogia che ci conduce a proteggere nel loro sviluppo tutti i fanciulli, compresi quelli che si dimostrano refrattari all’ambiente della vita sociale… (Montessori M., 1909)

L’ospizio-scuola sorgeva a Roma, nello storico quartiere San Lorenzo, dove ha sede l’Università La Sapienza e dove ha sede anche l’Istituto di Neuropsichiatria Infantile, diretto per tanti anni dal professor Giovanni Bollea che ha fondato il primo “Centro Medico Psico Pedagogico” (CMPP), dove un’equipe multidisciplinare costruiva il processo diagnostico sotto forma di diagnosi pluridimensionale.
Si vuole in questo modo distaccarsi dalla classificazione puramente medica del disturbo e dare spazio all’idea che la disponibilità di un servizio materno-infantile adeguato è in alcuni casi efficace quanto e più di una terapia farmacologica.

Giovanni Bollea15 ebbe anche il merito di considerare l’osservazione del movimento del bambino alla stregua di qualsiasi altra osservazione clinica per giungere alla diagnosi:

Il momento cruciale è quando si comincia ad intravedere la via su cui condurre il paziente. Quando mi portano un bambino […], io non so mai qual è la prima domanda che gli farò. Lo guardo, lo saluto, magari gli faccio fare un momento di ginnastica e poi mi viene in mente la prima domanda; scendo così al suo livello di comunicazione, con umiltà […], mentre in me c’è uno sdoppiamento: un io che osserva e un io che conversa […], a volte è un attimo, altre volte è un fatto sofferto, altre volte ancora è una ricerca (Giovanni Bollea, 2003)

Dopo gli anni del fascismo, durante i quali si tornò a considerare l’handicap una malattia, il primo vero documento che afferma i diritti del diversamente abile è la Costituzione Italiana, che stabilisce l’uguaglianza, il diritto allo studio da parte di tutti i cittadini e definisce i compiti dello Stato nel rimuovere ogni tipo di ostacolo che non consente al cittadino la sua piena affermazione (art. 3, 34, 36).

Con la nascita della Carta Costituzionale inizia il cammino lento e graduale verso l’integrazione.

La Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, redatta nel 1924 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce che:

ogni bambino con menomazione fisica, mentale e sociale ha diritto di ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui ha bisogno per il suo stato e la sua condizione sociale

Il 1968 e il periodo che ad esso fa seguito costituisce un momento di diversa considerazione dei deboli, degli oppressi, degli emarginati: non più umanitarismo e filantropismo da parte dei sani, ma umanità dei deboli come dato di fatto da cui partire.
A questo periodo va fatta risalire la critica:

alle prassi tradizionalmente svolte nell’assistenza agli handicappati, al ruolo selettivo che assume la scuola emarginando ampie fasce di bambini in difficoltà (Ott M., Besio S. 1994)

La pubblicazione, nel 1967, di “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani16 e la conoscenza della sua azione pedagogica contrapposta a quella tradizionale, hanno creato un fermento di idee che si sono poi sviluppate nel dibattito comune di forze sociali, politiche e sindacali, fino a giungere alla consapevolezza della necessità di procedere ad una profonda riforma dei servizi scolastici, sociali e sanitari.

2017-07-13T12:28:44Z

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