La voglia matta Recensione del romanzo “Uvaspina” di Monica Acito

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Con il frutto della vite il titolo non ha nulla a che fare, è invece l’inconsueto soprannome del giovanissimo Carmine Riccio, detto appunto “Uvaspina”, protagonista di questo felice e brillante lavoro della giovane autrice Monica Acito, cilentana di nascita e napoletana d’indole e adozione.

Una bella storia, scritta anche meglio, promettente sin dall’inizio e invogliante all’ andare avanti già dai primi capitoli; tutto il racconto fluisce come l’andamento di una marea, un andirivieni lesto, agile, fluttuante. Una trama ottimamente organizzata, personaggi incisivi, scolpiti con cura e rifiniti nei particolari, soprattutto è un testo in cui si avverte in tutta evidenza, a pelle, l’ardore, l’entusiasmo, e l’intensa partecipazione emotiva della stessa autrice, nel divenire della storia da lei stessa creata.

È storia che piace e appartiene per prima a chi la scrive e poi, per osmosi, ai suoi lettori.

Monica Acito si fa interprete accorata, con intima, partecipata sofferenza, dell’anima dei suoi protagonisti, ognuno diverso e però ciascuno peculiare attore principale.

Se il giovane Uvaspina spicca come filo di unione di una, due, più storie che riguardano il suo vissuto affettivo, a ognuna delle scene, a ciascuno degli attori, viene però dedicata pari attenzione.

L’autrice è una valente artigiana, e come tale, opera senza sprechi di materiale, senza ridondanza: ogni parola serve al suo compito, e solo a quella, in questo racconto che concerne famiglia e fragilità, diversità e incuria, nobiltà e plebe, bullismo e omofobia.

Non è solo novella di persone e di azioni, è racconto globale di una città speciale, Napoli, metropoli unica e mai uguale, tanto antica quanto intrigante, metà umana e metà animale come ben conviene alla sirena da cui origina.

Città che in prima istanza tutti accoglie, poi si incunea come nessuna altra terra nell’anima di chi per lei si incanta. La lambisce lievemente, con costanza, si insinua nei cuori con i suoi umori, i colori, gli odori, gli eccessi. Un moto che serve a scoprirti, a rivelarti, a portare in luce le realtà di fatto narrate. Che nell’insieme costituiscono una grande fatica creativa, un lungo lavoro di preparazione, di riscrittura, di correzione continua, direi di cesello, anche di più, di bisturi.

Attrae, suscita interesse, intriga, e personalmente commuove.

Tutto il romanzo è racconto di dolore, perciò storia forte, un testo potente che ferisce chi legge, fa male a volte, tanto sono colme le pagine di solitudine, di egoismo, di follia allo stato pure neanche tanto celata. E di tanto amore, fa male anche quello, talora.

Dolore e amore tutto sulle spalle del giovane protagonista.

A Carmine Riccio l’appellativo Uvaspina gli viene da una malformazione della cute, presente già alla nascita, posta subito sotto l’occhio sinistro; e fin qui non ci sarebbe nulla di male, non è una cicatrice o una deturpazione tale da incidere sull’armonia dei lineamenti e sulla piacevolezza della persona. Ma in lui si palesa invece come la punta dell’iceberg, è il marchio del tormento interiore del giovane, lo sfogo, la spia del suo malessere. Non è la voglia che è il problema, ciò che lo affligge e lo amareggia è la voglia matta che in altro modo desidererebbe si dipanasse il filo del suo destino: nulla più che una ambizione legittima, innocente, una normale tenerezza del vivere, che però a forza gli viene inibita. Secondo la tradizione popolare, la caratteristica dei pigmenti cutanei che Carmine reca sul volto, si formerebbe nel feto per un desiderio insoddisfatto della madre durante la gestazione: da qui l’origine delle cosiddette “voglie” di fragola, di vino, di caffellatte, macchie sull’epidermide neanche tanto insolite. Uvaspina è lui stesso insolito, nel contesto amorale in cui vive, infatti, è di per sé giovane dolce e garbato, fine e raffinato, un’anima bella seppure giovane e inesperto delle cose della vita. Deve tuttavia armarsi di calma, pazienza, e stoico eroismo. Che non gli competerebbero, neanche è giusto e umano attribuirgli, come gli accade, un compito e una fatica spropositata alle sue forze. Gli vengono ugualmente richieste, quasi dovesse sopperire in prima persona, in qualche modo, a qualche desiderio represso della propria madre in gravidanza, comprovato appunto dal proprio aspetto esteriore. Però, quanto da lui preteso a forza, non è affatto cosa facile, per una serie di ragioni.

Quali? Il dover gestire, a completo discapito della propria felicità, il contesto familiare e affettivo in cui vive. Tenuto conto che è il figliolo primogenito di donna Graziella la Spaiata, una donna del popolo sguaiata e chiassosa, grossolana e volgare; in lei tutto è spaiato, tutt’altra cosa del giovane figliolo fine e gentile. A suo tempo è stata una bella donna, malgrado le umili origini e il divario sociale ha combinato un prestigioso matrimonio, ma non si rassegna alla perdita della sua avvenenza, alla rinuncia di attenzioni da prima attrice, pur di non abbassarsi a un ruolo di comprimaria, preferisce cimentarsi in una volgare sceneggiata, al punto da defungere a scadenze prestabilite, per poi riprendersi fino alla prossima volta.

Non solo, va considerato anche il marito, nonché padre di Uvaspina, un altro caso umano: il notaio Pasquale Riccio, uomo vile e volgare malgrado il titolo, che del figliolo si vergogna, non lo ritiene, mai lo ha ritenuto, alla sua altezza come uomo, basti indicare come lo apostrofa con disprezzo con termini dubitativi della virilità del giovane: “femminiello”. Lui sì che invece è un vero uomo, un grande maschio che si accompagna alla grande con un’amante clandestina, che è la moglie di un amico giudice, e più spesso con prostitute nigeriane, pagate con i fondi di un circolo di cui gestisce truffaldinamente i fondi.

Completa il quadro familiare la sorella minore di Carmine,  Filomena detta Minuccia, un’anima senza pace, irrequieta e possessiva, una trottola, fuori da ogni logica e dentro ogni furbizia e cattiveria, dettata non da indole, ma da carenze di altro genere, misconosciute ai più.

Ultimo, ma non per ultimo, la vera ispiratrice di tutti gli umori di quanti detti, la vasta distesa del mare. Il gran mare che bagna Napoli, a dispetto di quanto affermava Anna Maria Ostiense; e non solo la bagna, ma si insinua nella crosta della terraferma, entra nelle secrete di castelli di tufo, ti chiama, ti bagna, e ti rivela. Altro non è il mare che acqua salata, acqua e sale, soluto e soluzione, gli stessi che compongono le lacrime, il sudore, il sangue: tutto il liquor dell’esistenza.

Monica Acito racconta la vita davanti a sé: il mare di Napoli, quello cantato dai poeti, quello di Posillipo e di Palazzo Donn’Anna con le sue stanze, le sue grotte e i suoi misteri, gli anfratti e i segreti. Dove vive Antonio il pescatore, il solo che potrebbe mutare l’anima di Uvaspina da sofferenza in felicità, se non fosse che Minuccia come detto è una trottola, le trottole hanno bisogno di uno spago per farle girare vorticosamente, e questo spago può avvolgersi dove non dovrebbe, fino a strozzare la felicità. Qui si parla di un’anima bella, tanta cara agli dèi da volerne incrinare in qualche modo la purezza, segnandolo con una escrescenza epiteliale, e una persona così è la sola che riesce a intrecciare il suo dolore a quello della sorella, ne riconosce la maggiore fragilità per di più incolpevole, e allora sceglie, e sceglie di restare quello che in effetti è, un’anima bella, a dispetto di tutti, riesce nella mutazione del proprio dolore nell’ amore per la sorella, molto più e meglio di quanto potrebbe fare una qualsiasi mutazione epiteliale sulla cute sotto l’occhio sinistro.

L’amore, quello vero, non è una cosa, una voglia, una macchia un’escrescenza, che un bisturi o un qualunque strumento affilato possano facilmente eliminare.

Resta, si imprime, affonda nel derma, non ti macchia, ti marca indelebilmente.

E troppo spesso fa anche male.

Autore Bruno Izzo
Fonte del romanzo “UVASPINA” di Monica Acito

 

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