La metà oscura – recensione del romanzo “Cuore nero” di Silvia Avallone

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Questo è un romanzo duro e forte, letteralmente di acciaio, che non è un metallo ma una lega minerale; “Acciaio”, inoltre, è un altro romanzo che a suo tempo donò buona notorietà all’autrice, in verità alquanto ben meritata.

Anche questa nuova uscita è un buon libro, una buona lettura, però non facile, magari indigesta, trama e lessico possono talora apparire critici. Il testo è ben scritto, davvero molto bene, Silvia Avallone è dotata senza dubbio di una penna scorrevole, narra con un tono eclettico, istruito, sapiente, però descrive più che riportare. Rende bene l’essenza del narrato, ma si fatica ad attribuirlo con realismo agli attori, gli dà voce con troppa eleganza, tant’è che si esprimono forse anche troppo chiaramente, la sua è una esposizione tale da non permettere al lettore dal farsi facilmente permeare da personaggi ed atmosfere, pur interessandolo e avvincendolo.

Tende a leggere quasi con distacco, eppure è lettura buona, ne vale la pena, serve solo mettersi comodi, prendersi del tempo, non tanto centellinarlo, anzi la storia ti prende facendosi leggere velocemente e costringendoti a non mollarla, quando lasciarsi invece effondere dalla trama, dalle atmosfere. Dai suoni, anche quando ovattati dalla caduta di neve copiosa. In sintesi, potrebbe subentrare l’intento di lasciarla andare. Credo sia meglio invece lasciarsi andare. Tenendo bene a mente un punto fermo, che poi è tutto quanto la scrittrice vuole evidenziare: le persone sono ognuno a sé stante. Possono essere buone o cattive, dipende da cosa predomina in un certo momento della loro esistenza, quale lato del dualismo bene/male è prevalente in quell’istante, pur nelle mille sfumature di luce evidenti in ogni chiaroscuro.

Qui si parla in particolare della metà oscura delle persone: ma le persone non possono essere solo giuste o solo sbagliate per tutta la vita. Perché le cose cambiano, la vita scorre diversamente, non va mai in precisa linea retta, ma è sempre un susseguirsi di curve, perciò l’esistenza ti forgia, l’animo umano conta versatili caratteristiche plasmabili, talora evolvi in meglio, talaltra in peggio, si persiste in certi modi o si svolta. Dipende: dipende dai fatti che ti accadono, dalle persone che incontri, anche se al momento ti appaiono tutto tranne che salvatori, le chiami Frau Direktorin anziché eroi, ma sono angeli custodi anche quando ancora non lo sai. Si cambia, tutto passa: per questo esiste il linguaggio, usa poche lettere ed infinite parole proprio per poter evidenziare i molteplici cambiamenti di una comune, magari banale, esistenza. La morale per apprezzare questo libro è sospendere il giudizio, teniamo il buono e detto questo iniziamo a leggerlo.

Questo è racconto di arrivi e partenze, è storia di un viaggio, ma non di una fuga, è la ricerca di un riparo, un sito di riflessione per ritrovarsi, e possibilmente salvarsi. Il luogo scelto, la destinazione finale in cui le anime ferite dei due principali protagonisti si incontrano, si permeano, si salvano e si disfano a vicenda, ha un nome che è tutto un programma, isometrico ai personaggi detti, si chiama Sassaia. Un paesino anche ai tempi belli popolato di poche anime, fatto di sassi, di pietre, giusto per questo un macigno, statico e inossidabile assai più di qualsiasi lega minerale. Uno di quei borghi antichi e rimasto sempre uguale a se stesso, sperduti sulle alture più impervie del Piemonte, spopolato da tutti, abbondonato a se stesso come tanti, troppi, piccoli borghi del nostro paese, con le case tirate su di sassi, appunto, e perciò Sassaia, brullo, roccioso, riarso. Ne restano solo due di abitanti, vivono qui fuori dal mondo con sporadici e logistici rapporti con l’esterno, il vecchio Basilio, artista, restauratore ed imbianchino ad un tempo, ed il maestro Bruno, ancora giovane e già dannato, auto confinatosi per scelta ed autoflagellatosi per convinzione.

 

La cui unica ragione di vita non è tanto seguire una classe di pochi pastorelli dei luoghi, quanto salvaguardare al meglio la poesia insita nel cuore del peggiore dei suoi alunni, tale Martino Fiume, la versione rivisitata del Franti del “Cuore” di De Amicis, sempre di cuori parliamo; Martino, come Franti, non sa più dove mettere la rabbia derivante da un padre inadeguato e molesto. Un giorno a Sassaia, accompagnata dal proprio inarrivabile papà Riccardo, un uomo comune che è invece la quintessenza buona del concetto stesso di paternità responsabile, giunge Emilia Innocenti, e con lei tutto il codazzo in ricordi e racconti delle sue amiche, prima di tutti la sorella di dolore assoluto Marta Vargas, e poi Yasmina, Afifa, Myriam e tante altre ancora. Ragazze, giovanissime, adolescenti, o appena maggiorenni, che per i casi della vita si portano dentro l’inferno. L’inferno ha tante facce, è un fuoco perenne, quindi ha tinte diverse e calore differente, può solo scottarti o carbonizzarti del tutto, dipende da dove sei situato, le lingue di fuoco hanno le sembianze fluttuanti di abusi, di pedofilia, di incesti, di sfruttamento di ogni tipo, di lutti materni mai metabolizzati, di bullismo, di indifferenza familiare e sociale. Tutte cose che avvenute ad una certa età pesano, è sempre l’adolescenza che decide chi sei. Da certi fatti dolorosi che ti feriscono a sangue potresti ancora salvarti e salvare la parte più importante di te, il tuo equilibrio mentale; farne catarsi e riscatto, considerarlo solo passato e perciò già avvenuto, ma puoi riuscirci difficilmente da sola. Chi ci riesce da sola, come Marta Vargas, è un’eccezione, e come tale eccelle, raggiunge qualità dell’esistenza a standard alti, pur mantenendo consapevolezza amara, ma se ne fa arma di afflizione e non modus vivendi amareggiato. Tutte le altre da sole non si salvano, rischiano di ritrovarsi sempre, inesorabilmente, allo stesso punto. Sono ragazze che per l’inferno in terra ci sono passate, e però, incredibilmente, e normalmente, si innamorano. Ancora, e sempre. Fosse solo per questo, allora, se in queste ragazze la metà oscura prevale, è obbligo morale intervenire. Non si è colpevoli di dove si nasce, in quale contesto. Si è responsabili invece di quanto quel substrato ti induce a compiere, questo sì, la coscienza, la padronanza di sé è una scelta, ed è sempre individuale. Però il male non sarebbe accaduto se una società civile avesse vigilato, fosse intervenuta al momento opportuno a soccorrerti, salvarti, semmai fosse arrivata in ritardo, almeno avesse provveduto a medicarti e risarcirti in qualche modo. Inutile illudersi, il male esiste, è banale e perciò frequente, facile a presentarsi, ed a farsi. Ma può esserlo anche il bene, solo che nessuna si salva da solo.

Il male è banale, perciò non si riesce a perdonare. Incredibile, ma vero, non si riesce a lasciarlo andare. Il male che subisci ti appare sempre molto più grave di quello che fai. Però, ma lo capisci dopo, dal male che fai non c’è via d’uscita. Almeno da sola, no. Questo il romanzo lo riconosce, allora questa non è la storia evidente di Emilia Innocenti, Marta Vargas e tante loro coetanee, questa è tutt’altro, è l’affresco sublime e antico, con tante figure mirabili sullo sfondo, essenziali, autorevoli, solenni, i veri eroi, le vere eroine di questo racconto, rispondono ai nomi della dottoressa Gilda Pavulli in arte Frau Direktorin, delle educatrici Sara, Rita, Vilma, la Pandolfi, perché l’unica vera risposta è l’amore.

Radicalmente, e senza stacchi pubblicitari. Se ami una persona, non puoi prescindere da quello che è, ed è stata. Non puoi suddividerla in parti, scegliere solo quelle che ti fanno comodo. Devi accettarla intera. L’amore è la cura, il solo che lascia traccia, che innalza vertiginosamente la temperatura di un pezzo freddo di acciaio, portandolo al punto di fusione, rendendolo incandescente, forgiandolo a forma di cuore, rosso e non nero, così come è giusto che sia.

di Bruno Izzo

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