Tutto ed il contrario di tutto – recensione del romanzo “Il gioco degli opposti” di Francois Morlupi

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Un titolo azzeccato questo “Il gioco degli opposti” di Francois Morlupi, l’ultima storia seriale che vede protagonisti i singolari personaggi delineati dallo scrittore italo-francese: cinque poliziotti in servizio nel commissariato del quartiere Monteverde in Roma, perciò noti come i cinque di Monteverde.

Ma non solo il titolo, tutto il romanzo è riuscito davvero bene, brillante, efficace, molto preciso e perciò indicativo di un intento felice e di una applicazione lunga, diligente e laboriosa, alterna cifre di ironia e serietà, di azione e sentimenti, di debolezze e rigidità. Tutto, ed il contrario di tutto. Il commissario capo, Biagio Maria Ansaldi, ed i suoi immediati sottoposti, costituiscono in verità una squadra di poliziotti ben affiatati, sono in tutta apparenza un normale gruppo operativo di funzionari di polizia di vario livello preposto al controllo di un ben preciso territorio di giurisdizione, appunto il quartiere d’assegnazione. Nell’insieme, sono ineccepibili, addirittura eroici nelle loro precedenti e fortunate missioni, formano un tutto organico, abili, efficaci, intelligenti, integrandosi a vicenda, tutti insieme appassionatamente: ma già questo di per sé è un’incongruenza, un opposto, un vero e proprio gioco degli opposti, sono cinque elementi che, mantenendo rigorosamente le proprie caratteristiche, più diversi ed inconciliabili non potrebbero essere.

Diremmo assai di più, Ansaldi, Loy, Leoncini, Di Chiara, Caldara prima ed Alerami poi, sembrano talora più dei casi umani, che dei valenti tutori dell’ordine a difesa dei cittadini, ciascuno a suo modo. Almeno nel caso del suo braccio destro Eugenie Loy, la cosa affonda le radici in un substrato drammatico, ma ciascuno di loro ha più problemi che soluzioni da offrire. Sembrerebbe perciò inattendibile una loro riuscita professionale nei casi delinquenziali più gravi che possono presentarsi, e che puntualmente si verificano, presi singolarmente suscitano qualche dubbio sull’effettiva capacità ed efficienza, insieme forse peggio che andare di notte, diremmo proprio ad esaminarli nel dettaglio che tutti e cinque tutt’al più possono solo barcamenarsi alla meno peggio nelle burrasche dei fatti delittuosi, oltre una normale routine non potrebbero mai cavarsela.

A comprova di quanto detto, valga come esempio per tutti, è proprio il capitano di bordo, il timoniere principe. Biagio Maria Ansaldi è un capo davvero per certi versi, impresentabile: l’opposto di un qualsiasi investigatore della letteratura poliziesca, finanche il ridicolo Hercule Poirot appare fisicamente più agile, attivo ed avvincente di lui. Miss Marple è sexy e sensuale molto più di Ansaldi, che è grasso oltremisura, abbondantemente fuori forma, il che contribuisce a renderlo goffo ed impacciato: la sua però, questo il fatto grave, è un tipo di obesità che ha radici nel suo subconscio più che nell’amore eccessivo per la buona tavola. Il commissario è la quintessenza di una grave forma di ipocondria. Non è un bonario cicciottello alla Maigret, o un ancora più poderoso Nero Wolfe perso dietro la sua fisima per le orchidee, neanche è tipo un massiccio gigante buono che raddrizza torti, agile e manesco all’occorrenza, e solo quando davvero serve, malgrado la mole, come può essere il brigadiere Maione.

Ansaldi ama la buona tavola, ma non mangia, trangugia, ingurgita, si abboffa facendosi male da solo, è cupo, ombroso e malinconico peggio del commissario Luigi Alfredo Ricciardi, che almeno è giustificato da un certo fatto. Biagio Maria Ansaldi è una vittima ancora irrisolta, sulle spalle gli pesa un vissuto che lo ha indelebilmente segnato nella primissima giovinezza, causandogli depressione, angoscia di vivere, sfiducia in se stesso, irrequietezza per qualsiasi cosa che incrini il suo personale ordine costituito delle cose, è un caso classico di nevrastenia depressiva, compulsiva ed ossessiva, ingoia a manciate farmaci, integratori, linimenti vari per curare il minimo accenno del presentarsi di disturbi fisici spesso inesistenti, detesta il freddo, la neve, i voli aerei, lo sporco, i microbi, i germi, trova rifugio nell’arte e nella cultura di alto livello, sola panacea che lo riconcilia con il mondo e gli reca sollievo, per quanto momentaneo.

Da non credersi, il commissario Ansaldi è però anche, spesso e soprattutto, l’esatto contrario di se stesso: è intelligente e acuto come Hercule Poirot, logico e riflessivo assai più di Jane Marple, un uomo con tutta evidenza gentile e buono d’animo, comprensivo e tollerante delle umane debolezze come Jules Maigret, ha il cuore d’oro di Raffaele Maione, coraggioso, generoso e fedelissimo ai suoi uomini, ai suoi affetti ed ai suoi valori morali, semplici e cristallini, per cui è pronto a sfidare pericoli di ogni sorta trasformandosi in agile uomo d’azione, possiede un senso innata di umana empatia e di umiltà d’essere dettatagli dal possedere la stessa identica sensibilità triste e però fine, delicata e premurosa del suo pari grado Luigi Alfredo Ricciardi. Francois Morlupi ha fatto centro con i suoi cinque di Monteverde: Eugene Loy, William Leoncini, Roberto Di Chiara, Roberto Caldara e Eliana Alerami godono ciascuno di qualche imperfezione, ma così devono essere per rendersi verosimili, perciò sono graditi dai lettori, sono gli elementi chimici di una soluzione che annullano le scorie di formule mortali, non esitano a calarsi nel più nero degli abissi del male, si aggirano come delfini tra i pescecani a difesa dell’ambiente sottomarino che costituisce l’umana convivenza civile. Non sono protagonisti di serie tv americane, ma sono estremamente reali, perché la realtà supera sempre la fantasia, il vero sfocia spesso nel dramma, nella tragedia. Forse che non è una tragedia vedere turisti che fotografano cadaveri di vittime di brutali omicidi?

I romanzi di Morlupi avvincono per la loro complessità e semplicità ad un tempo, sono un ripetersi dell’eterno conflitto del Bene contro il Male, con un inizio ed una fine, un Alpha e Omega, lealtà e crudeltà, ed i suoi paladini sono i buoni, che si cimentano contro i loro contrari, i cattivi, ma sono buoni esattamente come accade nella realtà, talora anche soccombenti, come capita all’agente Caldara. Francois Morlupi con “Il gioco degli opposti” ci offre un noir poderoso, ben scritto, ottimamente strutturato, che avvince il lettore con continui colpi di scena e capovolgimenti di fronte, c’è di tutto in questo tomo grandioso, il lettore appassionato del genere che ha certo riconosciuto i personaggi polizieschi citati, apprezzerà tutto quanto il romanzo contiene, tutto ed il contrario di tutto, scene di tensione, suspense, episodi degni di uno spettacolo di grand guignol sanguinosi e raccapriccianti, la rievocazione dei peggiori incubi da sepolti vivi d’epoca vittoriana, corse contro il tempo, conti alla rovescia, sparatorie e combattimenti all’arma bianca, poliziotti buoni e poliziotti cattivi, amore e contramore, informatica, deep web, e pizzini crittografati, finanche riferimenti alla peste nera medievale o alle più recenti pandemie. Il tutto in uno scenario esattamente inverso a tutto quanto è Ansaldi: viaggi in aereo, in elicottero, in autovetture a folle velocità sfreccianti su lastre di ghiaccio, freddo assurdo, paesi stranieri, incontri scontri con colleghi d’oltre confine covanti certe mai sopite nostalgie d’altri tempi e sistemi dittatoriali.

Però il tutto funziona, Francois Morlupi lo fa funzionare alla grande, serve dargliene atto, su tutto si posa una coltre abbondante di neve a suggellare il trionfo del bianco sul nero, come è gusto che sia, o forse così sembra, fino alla prossima volta. Il lettore ne esce soddisfatto dalla lettura, alla fine il disgelo del cuore dei cinque di Monteverde avviene nei modi più impensabili, lo puoi cercare e trovare in un bonsai, o può cercarti e trovarti lui, come può fare un piccolo, tenerissimo ed affettuoso cagnolino. Di modo che poi le colline ritornino a fiorire, ricoprendosi di un brillante manto erboso, un Monteverde, appunto.

Di Bruno Izzo

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