La discendenza femminile – recensione del romanzo “Il cognome delle donne” di Aurora Tamigio

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Il buon romanzo d’esordio di Aurora Tamigio è una saga familiare, forte ed efficiente, il racconto di un’epopea tutta declinata al femminile, che inizia nella Sicilia dell’immediato primo dopoguerra per terminare, in linea diretta da donna a donna, nei moderni anni Ottanta del secolo scorso.

La storia scorre disinvolta, funzionante per bene nelle intenzioni, costruita con proprietà di linguaggio ed intercalata da espressioni dialettali che la contestualizzano senza aggravio nella lettura. Narra la vita vissuta, e vessata seduta stante già all’origine, della capostipite Rosa, passando poi per la sua unica discendente femmina, e vittima angariata, Selma. Infine, la narrazione termina con le figlie di quest’ultima: la bellicosa ed indomabile Patrizia; segue Lavinia, tanto fascinosa come un’attrice quanto rammaricata di non poterlo essere per davvero, ed infine l’ultima nata Marinella, vaga e confusa, a tratti smarrita dal suo essere con un piede in due epoche diverse come il giorno e la notte. Tutte donne, dal fato così segnate per l’esistenza difficile, sofferta, limitata dallo strapotere maschile e maschilista imperante, dalla mentalità patriarcale prepotente e prevaricatrice del loro tempo, immutata al trascorrere delle generazioni. Le segna un modo di pensare degenere e degenerato, dapprima addirittura ostentato e motivo di vanto, in seguito con il trascorrere degli anni ed il crescere delle coscienze, certamente sempre manifesto ma in qualche modo velato, fattosi accorto per motivi di comodo opportunismo, e però tacitamente tuttora divulgato e applicato di fatto dal consorzio del vivere comune, ieri come oggi.

 

Cambiano i tempi e le mode, non le storture. Giacché, sebbene con modi diversi, ognuna dei personaggi del romanzo viene considerata, e trattata di conseguenza, esattamente come all’inizio della nostra storia il papà di Rosa considerava le donne, all’alba del secolo scorso: nulla più che campane. Oggetti, quindi, in primo luogo, e per di più inanimati, perché sebbene provviste di sapienza e parola, non godono di volontà propria di decidere e agire. Non a caso, letteralmente campane: manufatti da cui trarre suoni, anche piacevoli per il suonatore, e altre pratiche utilità di qualche costrutto, solo allorché vengano scientemente battute, e non per modo di dire. Un vivere con violenza, e non parole; con prepotenza, sfruttamento e disumanità, mai con rispetto ed amore. Il metodo maschile per poterne trarre sinfonie di qualche vantaggio appunto per un solo genere, quello dominante; per la controparte femminile non si assegnano diritti e meno che mai pretese accampate per meriti e fatiche, in sintesi le donne protagoniste del romanzo, e le loro contemporanee, sono soggette e sottomesse alla volontà e giurisdizione esclusiva di un uomo, non necessariamente il proprio uomo. Lo status di genere vale di per sé come precisa distinzione di ruolo tra libero e sottomessa, semmai il legame di parentela è un di più, semplicemente certifica ex lege, per quanto assurdo ed abietto, un diritto esclusivo di proprietà sulla persona e sui suoi beni.

Né più né meno di quanto tuttora occorra, in modo diafano, impercettibile, minimale, e però concreto. Esiste tuttora una ferma volontà, magari inconscia, di predominio sociale fondato sull’autorità assoluta dell’uomo, patriarcato e maschilismo sono realtà tanto abiette quanto reali, non si tema di esagerare nell’affermarlo, ed è inutile che si rivendichino emancipazioni e conquiste basilari già da tempo acquisite. Il rifiuto ostinato alla parità dei generi è dimostrato di fatto dal costante aumento di violenze registrate periodicamente nelle cronache contemporanee, sempre e solo a discapito di un solo genere, guarda caso quello femminile. Tutto il romanzo è un affresco, un ritratto di famiglia angusto e addolorato, inserito in un preciso contesto storico di costume, che descrive non tanto l’usuale esistenza di queste donne, ma sottolinea i vari modi, che paiono diversi ma sono infine sempre gli stessi, immutati nei secoli, con cui si manifestano i vincoli, le restrizioni, gli abusi e le soperchierie a cui sono obbligate a forza le donne di tutti i tempi non solo dai propri ma anche dagli altri uomini.

Ciò che il libro denuncia, in forma più cronistica che romanzata, e perciò tanto più reale e aderente alla realtà dei tempi, è sempre la stessa canzonetta, il trito ritornello del maschilismo, il solito refrain del becero e deleterio spirito maschilista, arcaico e patriarcale. L’ atteggiamento mentale tanto assurdo quanto di comodo, un pretesto per giustificare un dominio, il pregiudizio culturale che recita la superiorità dell’uomo rispetto alla donna, altro non è che un’indole nefasta, deleteria, immonda che da sempre ammanta l’animo di certi uomini, troppi, tanti, la stragrande maggioranza. Sorge perciò spontaneo il fondato sospetto che tale modo di essere altro non sia che una tara ereditaria, la storpiatura del gene XY, che niente ha a che fare con la perfetta comunione di intenti, l’ umana solidarietà, la bontà, la dolcezza e la delicatezza dettate dalla più sana coppia gemella dei cromosomi XX. Gli uomini non sono vittime della mentalità corrente dei tempi che vivono, dei costumi e delle circostanze, dell’educazione e degli insegnamenti sbagliati, il romanzo non è un elenco di torti, ma offre una visione omnicomprensiva, riporta per esempio personaggi campioni del genere umano pur essendo maschi, come Sebastiano Quaranta, il marito di Rosa. Ma per altri, come ad esempio Santi Maraviglia detto Santidivetro per la sua pelle diafana, è comodo fare proprio un modo di vivere situando la donna, che lo voglia o meno, in un posto parecchio indietro rispetto al maschio, dapprima di manifesta sudditanza e vassallaggio, poi successivamente in forma velata, di giogo invisibile, di passività se non di prigionia a sbarre velate.

Perché “Il cognome delle donne” è in sintesi il racconto di una appartenenza, le protagoniste sono indicate sempre con il loro nome di battesimo, perché non appartengono a sé stesse, ogni donna porta sempre, o quasi sempre, il cognome del maschio che l’ha messa al mondo. Un cognome che è un marchio, un codice di assegnazione, un timbro di destinazione. C’è solo da sperare, quindi, di trovare un uomo buono, una volta usciti dall’alveo familiare di sudditanza a padre e fratelli, un buon marito, comunque un altro maschio che sia magnanimo, perché: “…i maschi gentili sono preziosi come l’oro.” Non sono quasi mai gentili, gli uomini, perché sono soli, ed isolati, sono uno sbaglio di natura; le donne che non sono preziose come loro e l’oro, hanno invece un valore incalcolabile. Infatti, sono duplici, vanno in coppia come il loro cromosoma doppio insegna, si cercano, si uniscono, solidarizzano, fanno fronte comune come una sola donna.

Nessuna di loro dorme. Continuano a lottare, non si arrestano, cambiano il fronte, finanche quello del loro cognome: “Adesso la legge dice che te lo puoi tenere se vuoi, lo aggiungi a quello di tuo marito.” Come dire: c’è ancora domani. Domani vincerò.

di Bruno Izzo

 

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