Viaggio al termine della notte – Recensione del romanzo “L’alta fantasia” di Pupi Avati

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di Bruno Izzo

Questo non è un romanzo di uno scrittore, è un pezzo di bravura, una gran prova di cultura e di erudizione di un artista a tutto tondo, di rara e duplice sensibilità, un notissimo maestro della cinematografia italiana, e non solo.

Quindi un regista, che è solito esprimersi in immagini animate, e invece qui si rivela altrettanto abile, operazione già fatta in passato, nel trasformare le immagini ed i suoni in parole scritte, suscitando ad arte con il testo su carta, nell’immaginario personale del lettore, le malie, gli scenari, la colonna sonora, le inflessioni vocali nei dialoghi ed i lineamenti dei personaggi, il tutto sapientemente provocato con la sola parola scritta, esattamente come saprebbe fare un bravo letterato. Pupi Avati è, in sintesi, un poeta che sa esprimersi altrettanto bene tanto in video che sulla carta. Direi di più, il regista bolognese è un sommo poeta; con le immagini o con le parole, sempre esprime il lirismo dell’esistenza, quella che permea comunemente i fatti della vita, e che solo gli artisti di rara sensibilità sanno cogliere per offrircela. “L’alta fantasia” è un testo di estrema poesia, e lo stesso titolo, non è che un modo di indicare una liricità di estrema bellezza. Chi è il cantore massimo dell’esistenza del suo tempo espressa in canti, in versi, in un carme di estrema suggestione ed emozione? Ma Dante Alighieri, naturalmente, e chi altri? Con la sua “Divina Commedia”. Pupi Avati questo farebbe normalmente, parlerebbe di Dante in un film; ma ogni artista che si rispetti, tende ad esplorare, a mettersi in gioco, ad esprimere il suo immaginario in modi diversi ma con pari efficacia, ecco allora che nasce non una divina commedia per immagini, sarebbe scontato e ripetitivo, ma una bella storia scritta con Dante protagonista, un Dante magari diverso e poco noto, resa bene quanto le immagini, e però con le sole parole vergate su carta.

Magari utilizzando tecniche cinematografiche come il flash back, ma rigorosamente espresso in forma scritta. Avati è cineasta, ma anche scrittore: e questa duplicità la riversa anche nel suo racconto, non solo Dante compare nel romanzo, ma anche un altro grande della letteratura, Boccaccio. Come dire, due al prezzo di uno, o due a due, giusto per pareggiare i conti artistici. “L’alta fantasia “inizia con la morte dell’Alighieri. Alla notizia, Firenze reagisce come si suole dire chiudendo la stalla quando il bestiame è già scappato, la città ed i suoi governanti trenta anni dopo la morte di Dante stanziano una bella somma di denaro a titolo di risarcimento per i familiari del poeta condannato a suo tempo all’esilio, e morto perciò lontano dalla terra natia e sepolto in quel di Ravenna.

Questo bonus pecuniario viene affidato a Giovanni Boccaccio, con l’incarico di consegnarlo alla figlia di Dante, che ha preso i voti monastici. Tutto il romanzo è quindi un taccuino del viaggio, che non è solo fisico, ma in un certo senso un susseguirsi di emozioni, un giro a tappe ciascuna delle quali costituisce un evento miliare nella vita del Fiorentino. Un itinerario che è una sorta di ricostruzione di ciò che è stata l’origine, anzi l’insieme delle origini, della commedia divina: lo stesso iter che studiosi, docenti, discenti o semplici appassionati compiono da tanti secoli per leggere tra le righe i fatti, i significati, le accuse, le iniquità, gli amori, le metafore e le allegorie insite nei singoli canti dell’opera omnia del grande letterato. Diciamo subito però che “L’alta fantasia” di fantasia vera e propria ne conta poco, non è un racconto fantastico, o almeno non solo, ma è una ricostruzione fedele a quella che potrebbe davvero essere stata la concretezza dei fatti del tempo, è storia vera e reale, è un libro molto ben documentato, con tanto di eventi storici precisi e ben riportati, Pupi Avati porta Boccaccio a ricordare e riconsiderare Dante, lo fa su un substrato di eventi realmente accaduti e che certamente hanno influenzato il Poeta ispirandogli i canti della sua opera, e però allo stesso tempo ci presenta a modo suo, filtrato dalla propria sensibilità di narratore, un Dante altrettanto reale sebbene meno conosciuto e citato dalla storiografia ufficiale.

Un Dante più uomo e meno sommo poeta, una persona dotata tanto di talento letterario, faticosamente temprato nel tempo, che da una sensibilità fuori dal comune, il fiorentino è prima di tutto un uomo sapiente e intelligente, un professionista, e allo stesso tempo è persona fortemente empatica, un acuto osservatore dei suoi tempi e di tanti personaggi da lui conosciuti, antepone la sua sodalità alla sua poesia, ed è questa sua drittura morale che ne fa il Sommo Poeta. Il viaggio per Boccaccio, e per suo tramite per Avati, è un pretesto, un modo per raccontare Dante bambino, Dante giovinetto, Dante turbato, travolto ed estasiato dall’amore sublimato per Beatrice, Dante politico, Dante soldato, Dante amico intimo di Guido Cavalcanti, Dante letterato. Si narra tra le righe quanta fatica e quanto ingegno, quanti sacrifici e quanto dolore gli sono costate le sue opere, spesso osteggiate dai suoi nemici, prima tra tutti la Chiesa.

Come lo fu per Michelangelo, la poesia, la Divina Commedia in particolare, anche per Dante rappresentò il tormento e l’estasi, ben lo sanno Boccaccio e, secoli dopo Pupi Avati, perché l’arte, sapete, provoca spesso dolore, supplizio, sacrificio, prima di giungerti all’incanto ed all’elevazione intellettiva. Il tutto reso in maniera fluida, scorrevole, lineare, rapida e godibile, si tratta di un libro di non molte pagine, e però intenso. Di grande levatura accademica, senza mai apparire pesante, tutt’altro, un racconto per tutti. E poiché la poesia è anche Amore, tutto il libro rivela Amore con la maiuscola, certo principalmente quello di Dante per Beatrice, ma anche per la famiglia, gli affetti, manco a farlo apposta anche la stessa figliola monaca di Dante si chiama Beatrice, e in particolare risalta un altro amore, quello che lo stesso Boccaccio vela gelosamente in sé per il grande poeta. “…Boccaccio affidò la borsa contenente le monete alla vecchia badessa: Vorrei le diceste che considero suo padre mio padre…padre di tutte le gioie della mia vita…” Il che ammanta il suo tragitto di tristezza e malinconia, anche doloroso essendo l’autore del Decamerone affetto da scabbia, e tuttavia prosegue, non demorde, lo rende un cammino di rimpianti, un viaggio al termine della notte. Amore…ma ogni amore pretende Musica. Esige una colonna sonora che sottolinei i momenti cruciali delle azioni. Chi meglio di un regista può saperlo? Allora ogni capitolo è inframmezzato dai titoli delle musiche che Avati ritiene più opportune a quanto narrato, spaziando dalle arie della musica classica ai pezzi del repertorio jazz.

Il tutto, sia chiaro, non è una biografia, una storia di Dante uomo e poeta, o di Boccaccio, non è un’opera compiuta, nemmeno potrebbe esserlo, data l’esiguità del volume: più precisamente, è una serie di scene, di quadri ben scritti e ben presentati, ma non dei ciak, qui diciamo chiaro e tondo che non è una sceneggiatura, anche se potrebbe divenirlo, il romanzo non è stato scritto per il cinema ma per un altro motivo: per Amore. Un duplice amore: per la scrittura, e per i due grandi letterati, Dante e Boccaccio, gli inventori della letteratura italiana, i campioni della nostra poesia e prosa. Perciò Avati si avvicina a loro con amore, certo, ma anche timore reverenziale, e quindi con umiltà: il suo intento è rendere omaggio ai due grandi, non altro. Come da settecentocinquanta anni tanti altri fanno, con immutata stima, devozione e ammirazione; perché, sapete, Dante Alighieri: “…Sapeva il vero nome di tutte le stelle.”.

 

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