Quel che sia il Rione Sanità, uno dei quartieri popolari più caratteristici di Napoli, se non il più peculiare, ebbe già a delinearlo chiaramente Eduardo De Filippo in una delle sue più note rappresentazioni teatrali, “Il Sindaco del Rione Sanità”.
di Bruno Izzo
In questa commedia, una vera e propria tragedia in salsa partenopea, con tanto di fatti di sangue, il maestro drammaturgo esponeva nei particolari il realismo di questo quartiere specchio della città e di tante altre analoghe realtà, allorché regnano incontrastate miseria, povertà, disoccupazione e ignoranza dilaganti, bollava l’unico ordinario, pressoché ineluttabile viatico obbligato al delinquere, dettato dalle dolorose circostanze di bisogno, spesso dal solo fatto di nascere in un luogo anziché in un altro, nel degrado anziché in un contesto civile.
Il tutto, per puro amore del paradosso, ambientato in un quartiere il cui nome, Sanità, deriva da una pregressa salubrità dei luoghi, un tempo ameni e ricchi di gaia vegetazione, ora cupi, chiusi, tetri. Perchè i fumi della delinquenza spicciola, quella comune dei piccoli traffici ed illeciti atti a sbarcare il lunario della povera gente, nonché in una progressiva escalation i furti, gli scippi, il contrabbando, la ricettazione, e le consequenziali furberie, l’impertinenza, la petulanza, la sfacciataggine ai quali tutti sono dediti, obbligati a forza per puro spirito di sopravvivenza, tutto questo in qualche modo toglie colori, sbiadisce il presente ed oscura il futuro dei nativi, specie i più giovani.
Ai residenti non tanto di luogo ma di giacenti in tali infime condizioni, in mancanza di quanti a ciò preposti dalle istituzioni, conviene chiedere aiuto ai sodali nella sofferenza, vivi e morti, vicini, conoscenti, parenti, in una rete rattoppata ma sana, a suo modo “salubre”, questa sì una vera Sanità, che accoglie, assiste, supporta i meno fortunati, poiché ognuno sa che al peggio non c’è mai fine, chiunque prima o poi può aver bisogno dell’altro, di aiuto e soccorso magari solo morale.
Un sentimento, un sentire comune, una comunanza che negli ultimi, negli umili, nei paria della società è la sola assistenza sociale a portare luce, a rischiarare, a mantenere viva la speranza: che resta l’unica ragione di vita. Nella Sanità, che è quasi un mondo a sé stante unito letteralmente da un ponte al resto della città, si attua tra gli abitanti, come in tanti altri quartieri della Napoli storica, quella verace, una sorta di mutuo soccorso, una protezione civile collettiva che arruola come effettivi finanche i defunti, sentiti sempre vivi, vicini e partecipi all’esistenza quotidiana, con loro dividendo affanni e problematiche varie. A comprova, l’abbondanza in loco di un tripudio di chiese, siti, templi, sacrari di indubbio ed affascinante interesse storico, a sancire vincoli oltre la vita.
“…I vivi…erano rimasti insieme ai morti, e la morte era l’altra faccia della vita con la quale allearsi per averne vantaggio… Non potendo aspettarsi aiuto dai vivi, il popolo lo chiedeva ai defunti.”
Allora, tutto quanto avviene ad uno del quartiere è come se avvenisse a tutti indistintamente, sono tutti legati e collegati tra loro molto più che da vincoli familiari, sono letteralmente questioni di sangue. Pare iscritto nel DNA la condanna a delinquere a cui tutti sono destinati, fato che proviene dalla sola nascita nel bisogno assoluto di tutto, in stato di estrema necessità, nelle ristrettezze economiche e morali, che vietano di cogliere l’attimo propizio per usufruire delle opportunità, più o meno felici, che l’esistenza offre a chiunque disponibile a raccoglierla.
Ne consegue infine che, in mancanza delle istituzioni proposte, in un tale sistema illegale e perciò di per sé privo di regole, è un Sindaco, un capo camorra, un uomo di rispetto della malavita l’unico che possa, in qualche modo, mantenere l’ordine o una parvenza di questo, con metodi autoritari e coercitivi, gli unici possibili e riconosciuti efficaci, per prevalere su tanti candidati ad affermare il proprio carisma e la propria autorità basata sulla forza, sulla paura, sulla violenza, gestire luoghi e attività ai limiti del lecito ed oltre, regolare gli umori, gli scatti, le nefandezze a cui la disperazione costringe gli sventurati più spesso vittime che colpevoli.
“…non c’è bugia più grossa di quella che dice che ognuno ha la libertà di scegliersi la vita che vuole. Solo i ricchi ce l’hanno questa libertà. Gli altri si devono tenere la vita che gli è capitata.”
Fatte queste premesse, ed i dovuti distinguo, infine tutto questo è quanto si racconta in “Questioni di sangue” di Anna Vera Viva: un libro che delinea la Sanità, riferisce le mille esistenze che popolano il quartiere, il piccolo falsario di abiti firmati, il ladruncolo, la contrabbandiera di sigarette, la prostituta tanto bella e delicata quanto lontana dalla turpitudine del suo mestiere, insieme ad altri membri onorari del popolino non inclini a delinquere e però costretti ad arrabattarsi con mille sacrifici e rinunce, il romanzo è uno spaccato della città davvero ben costruito, con esattezza, precisione e riportato in modo più che attraente direi avvincente. Il narrato ritrae con la penna, meglio che con un pennello, volti, situazioni, emozioni, finanche l’amore immenso, incondizionato, perenne e viscerale per la squadra di calcio del Napoli. Con pochi schizzi ecco figure tracciate nei particolari, fatti storici, miti e leggende dei luoghi, un vero e proprio tour esoterico nella Napoli di leggende e misteri: “O’ Munacone”, il cimitero delle Fontanelle, l’ossario sotterraneo con i teschi e la “scolatura”, le anime “pezzentelle”, tutto quanto fa del quartiere, e di Napoli per estensione, città fatata, fiabesca, incantevole, magica, misteriosa ed insondabile, tanto vivida con pari intensità in superfice e nelle sue viscere. Anna Vera Viva si rivela qui ed ora scrittrice formidabile: riporta la sua storia inserendola abilmente nelle storie della città, con cura, attenzione, impegno e dedizione; non appesantisce mai la sua prosa, anche nei momenti più da soliloquio dei suoi personaggi, con abilità e maestria li fa apparire quasi si confidassero con il lettore, ha dono ed istinto di presentare il suo lavoro più da ascoltare che da leggere. Non ci fa vedere la città, il quartiere, ce li fa sentire. La Sanità risuona di voci, dei richiami, dei pettegolezzi, degli “inciuci”, il lettore sente e segue così l’evolversi dei fatti, è l’ombra del parroco girovago, come lui si arrabbia e si indigna, è caritatevole e furioso, fraterno ed umano, talora burrascoso nell’animo. Perché il momento più ingegnoso, a parte il finale intrigante, sconvolgente e sbalorditivo, ciò che ci ha ammaliato nel lavoro della scrittrice napoletana, a sottolineare il misto tra sacro e profano, mondo delle anime defunte e degli animi tormentati dei viventi, è proprio il fatto che la scrittrice ha pensato bene di affiancare ad un Sindaco eduardiano anche un prete di pari stoffa, il parroco del Rione Sanità.
Che sono per di più anche fratelli, fratelli carnali, di sangue: Giuseppe “Peppino” Annunziata e Don Raffaele Annunziata sono stati infatti separati non alla nascita o in tenera età, ma comunque nel momento più vulnerabile della loro esistenza. Figli di un povero sventurato, aduso più per dabbenaggine che per animo malevolo ai lunghi soggiorni in carcere, e di una donna deliziosamente materna morta troppo giovane, sono divisi dalla pubblica assistenza, benché inseparabili, legati da vincoli ben oltre quelli di sangue, quelli sanguigni di vicolo. Si ritroveranno dopo quaranta anni alla Sanità, il primo divenuto un feroce “Sindaco”, il capo della malavita locale, il secondo, cresciuto a Roma in adozione, entrerà in seminario malgrado l’indole irruente da “ragazzo di strada”, prenderà i voti e l’etichetta di “prete scomodo” quanto mai adatto, perciò, ad assumere l’incarico difficile di Parroco del Rione Sanità.
“…la vita differente che avevano affrontato li aveva costruiti in forme opposte, seppure con gli stessi mattoni…l’uno immagine speculare dell’altro, quasi banali nel loro essere il bianco ed il nero, il bene ed il male…”
Insieme i due fratelli si troveranno, e si ritroveranno, il buono e il cattivo, le due facce della stessa medaglia, la parte liquida e quella solida che costituiscono lo stesso sangue; diversi, ma uniti come vuole la voce del sangue; ed insieme indagheranno sull’omicidio di una mela bacata del quartiere.
Davvero un pessimo soggetto, un poliziotto corrotto, usuraio, violento e brutale, prevaricatore e rovinoso, quello che a Napoli si dice “o’ malamente”, un uomo dall’anima malvagia di per sé, inumano, perverso e velenoso. Indagini assai difficili, perché persone come queste fanno di tutto per attirarsi il malanimo collettivo: perciò, la sua morte è un sollievo per molti, una liberazione per tante vittime della sua esasperata malvagità. Così come, sul treno dell’Orient Express di Agatha Christie che corre nella notte, tutti i passeggeri, nessuno escluso, hanno i loro motivi per vedere morto la vittima ritrovata in uno scompartimento, così anche nella notte brulicante di voci della Sanità tutti hanno una qualche ragione di disprezzo e vituperazione nei confronti del turpe poliziotto assassinato.
Tanti, troppi, quasi tutti nel quartiere Sanità…ed anche in altri quartieri, finanche quelli nobili ed altolocati. Ma uno solo è l’assassino. Serve allora un tipo di indagine che svisceri le motivazioni più recondite e profonde, le questioni di sangue, appunto, che sono intrinseche e talora inesplorabili ai comuni mortali come i misteri dell’anima: perciò la soluzione può essere fornita solo dal Parroco del Rione Sanità. Soluzione che ha un sapore ferroso, di sangue: naturalmente, sono questioni di sangue:
“…di padri e di figli, di sorelle e fratelli…di sangue che identifica e lega, di quello che scorre nelle vene e nelle strade…di quello che ti lega ad un ruolo così visceralmente da farti sentire d’appartenergli anche dopo anni di lontananza…il sangue colorava tutto, potenziava, espandeva, trasferiva…”.