Stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Quella che è il personaggio principale, se non la protagonista assoluta di tutti i suoi libri, l’origine che vivifica e caratterizza tutto il suo narrare, qui non è manco citata.
di Bruno Izzo
Non c’è la città di cui ha scritto datandola appena prima dell’ultimo conflitto mondiale, con spettri appena sfumati situati negli angoli, percepiti in chiaro da chi ci riesce suo malgrado, e che illusioni o fantasmi non sono, ma semplici anime vaganti nei tempi plumbei del Ventennio.
Nemmeno c’è la metropoli contemporanea di cui ci ha raccontato sempre, e che a lui si confida, solare, caotica e chiassosa, viva e palpitante di umori, dalle mille contraddizioni ed ossimori viventi, dove coesistono gomito a gomito procaci signorine, distinte ed anonime signore avanti con gli anni con i capelli grigi, ed emeriti bastardi di nome e di fatto.
Napoli non appare neanche di straforo nell’“Equazione del cuore”, l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni. È giusto così: questa è e resta comunque una sua storia, un buon romanzo come lo sono stati tutti i suoi precedenti, personalmente lo trovo scritto ancora meglio, una penna più matura, forgiatasi sulle pagine precedenti; è sempre smaccato ed evidente lo stile suo proprio, semplice, gradevole, lineare, il discorsivo uguale a come comunemente ci si esprime nella vita reale; eppure, il suo linguaggio appare forbito ed elegante allo stesso tempo, un corsivo che si va perfezionando e tipizzando sempre di più, semplice e profondo, un intarsio di pregio.
Questa, perciò, non è una narrativa diversa, è la sua, un elaborato che lo rispecchia come autore e come persona, ripropone i suoi temi, il suo sentire, il suo animo, la poesia che cela nel cuore, è una storia compiuta come lo sono sempre tutte le sue storie, anche quelle seriali.
Un racconto redatto come un registro, la prima nota narrante l’esistenza di un uomo esperto di numeri ma ignavo, non ignaro, di note, talmente assorto, involuto sullo scorrere aritmetico dei suoi giorni, da farsi sfuggire inopinatamente che ambedue, scienza e musica, creano armonie, tra loro in sintonia.
I numeri scorrono in sequenza come in sequenza si susseguono le note sullo spartito: ambedue presentano ritmo e cadenza, suonano, scandiscono, descrivono, significano, emozionano.
Imprescindibili.
Questa, perciò, è la redazione di una vita, e di più vite: perché nessuno sta solo sul cuor della terra, sebbene trafitto dai caldi raggi del sole delle terre del sud, si resta sempre connessi, lo si voglia o meno, con altre vite, quelle che sono il frutto delle proprie scelte responsabili, è il legame di sangue che non si spezza mai, nemmeno a distanza, neppure giacenti su altri lidi avari di sole, terre fredde, umide e nebbiose. Legami che chiamano al soccorso, quando è tempesta, e non ci si può sottrarre.
Devi porti al timone, ritrovare la rotta e le secche, tenere il diario di bordo, il romanzo sciorina lettere su righe anziché numeri in quadretti, sembra un’equazione ma si legge come la più insigne delle relazioni, quella tra i nostri affetti, i nostri amori, ogni uomo ha cuore interconnesso ad altri cuori, malgrado provi a negarlo ed a privarsene, sono e siamo grandezze dipendenti le une dalle altre, per chiunque vivente sorge spontanea per natura un’equazione di vario grado, che può essere soddisfatta solo attribuendo precisi valori alle incognite che in esse compaiono; allora, e solo allora, si arriva alla relazione perfetta, la quadratura del cerchio.
Di tutto questo ci racconta qui Maurizio De Giovanni: ci parla di persone, di affetti, di famiglia, e stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Perché qui c’è molto di più : se può servire a consolare gli habitué sconsolati che richiedono il consueto menù, certamente qui c’è anche un mistero, e un poliziotto che nutre dubbi su come siano andate effettivamente le cose, un questurino “capatosta”, testardo se non cocciuto, come sa esserlo un meridionale, ed infatti è
“…nato a San Giorgio a Cremano, il paese natale di Massimo Troisi, pace all’anima sua.”
Ma sono coincidenze, semmai. Qui c’è molto di più: c’è il mare, sapete. C’è il mare fuori.
Il mare quello vero, quello che non bagna Napoli, come scriveva Annamaria Ortense, e bagna invece tanti luoghi, tutti i luoghi dove si aggira umanità, anche quelli distanti dal mare trecento chilometri, e che magari vantano però un grande fiume, il più grande che ci sia.
Ogni acqua corre al mare.
I fiumi, grandi o piccoli che siano, sempre nel mare sfociano.
Come noi: siamo tutti connessi e naviganti nell’oceano dell’esistenza.
Poi c’è un’isola, all’inizio della storia, quasi appena accennata, di sfuggita: anche qui manco a farla apposta, è l’attuale capitale della Cultura, sembra citata ad arte a significare che nessun uomo è un’isola. Quest’ultima come è noto è quanto scriveva John Donne, ripresa anche da Hemingway. Tutto il romanzo indica quindi una sola cosa: nessuno si salva da solo.
Il protagonista del romanzo è un ex professore di matematica a riposo; dopo la scomparsa della moglie, ed il felice e fortunato matrimonio dell’unica figlia, con relativo trasferimento della giovane in una prospera cittadina della provincia settentrionale, trascorre solitario la propria esistenza ritirandosi in volontaria reclusione su una piccola isola. Anche se la moglie lo aveva pur messo in guardia, quando era ancora in vita:
“…una figlia, a differenza della didattica, non si chiude con un diploma e arrivederci.”
Il professore non insegna più, si divide tra le sue passioni, la pesca in mare cui si applica con certosina diligenza ed aritmetica disciplina, e la matematica, naturalmente, che per il docente assume non tanto la consistenza di un metodo scientifico da apprendere, applicare al quotidiano e divulgare, ma una filosofia di vita che lo induce a tradurre ogni momento della vita in numeri, forme, figure geometriche che incanalano in modo logico e rigoroso tutti i fatti e gli eventi dell’ esistenza, la sua e quella degli altri. Anche perché considera finita la sua esistenza. Si sbaglia, e vedrà da solo come si sbaglia:
“…si può pensare solo una volta che la vita è finita. Una volta. Non due.”
Il professore è una brava persona, di indole buona e modi bruschi, solo che, in qualche modo, basta ora a sé stesso, e si incarta a crederlo: dopotutto, ha svolto linearmente e con rigoroso scrupolo tutti i suoi compiti, i suoi doveri istituzionali di marito, padre, professionista, docente, e seppure con minore assiduità, ha sbrigato con efficacia anche il suo ruolo di nonno nei confronti del suo unico nipotino. Senza nemmeno sforzarsi e rendersi conto che agli occhi del bambino egli è divenuto un emblema, un esempio se non un mito, un supereroe al centro dell’affettività del piccolo, un gigante, se non un Nettuno, dell’arte della pesca, che incanta e intriga il ragazzino, malgrado il burbero nonno neanche se ne dia per inteso. Agevolato in questo dal fatto che l’unica figliola, infatti, è convolata a nozze con il discendente ed erede unico e diretto di una impresa di grande spessore economico, un colosso nazionale e non solo presumibilmente del comparto agro alimentare, con sede in una piccola ma prospera cittadina della pianura padana:
“…una città di vecchi. Di vecchi e di ricchi…una ricchezza che fa male.”
La figlia Cristina è ora una donna ricca, certo, come il figlioletto, ma ambedue immensamente soli.
Il genero è uomo buono, marito innamorato, padre affettuoso; tuttavia, riveste responsabilità che sono temporalmente intense e possessive, vanno a discapito delle visite nel buon ritiro isolano al padre/nonno, ma senza che nemmeno costui ne abbia a male oppure provi a incrementare le sue visite al nord; i rapporti sono quindi sporadici e brevi, due sistemi che si sono compenetrati e poi distanziati, ognuno a sé stante.
Niente di più sbagliato, lo dimostra paradossalmente proprio un’equazione matematica, il teorema di Dirac: “…uno studente, un certo Paul Dirac, nome francese ma ragazzo inglese…”.
La matematica per il professore è il colmo della gioia, gli fornisce giustezza di sé, lo completa e lo definisce, costituisce motivo valido e ragione al trascorrere in solitudine i propri giorni, letteralmente lo relega in un’isola, esattamente come fosse al confino. Ma c’è il mare fuori, lo ha sotto gli occhi, e non lo vede. Ne calcola il moto ondoso, ma non lo sente. Pesca, ma è azione meccanica senz’anima.
L’esistenza è come il mare, prima o poi chiama: il mare esiste per navigarci, per pescare, per interagire con gli altri viventi, finanche per affrontarne le tempeste, ricercare porti e approdi sicuri, certamente non per fare da contorno ad un’isola. Dall’isola serve staccarsi, erigendo ponti, barche, passarelle.
Il Professore non è solo tale, è anche un Pescatore, nemmeno si accorge che sono figure in palese contraddizione: il matematico calcola ampiezza e profondità, il Pescatore il mare lo rispetta, e con esso le sue creature. Apparteniamo tutti al mare, da quello veniamo, a lui ritorniamo.
Non lo vede il professore che il suo stesso nome è un ossimoro, un uomo triste e razionale che ha nome Massimo de Gaudio. Massimo commette un errore madornale: confonde la matematica, e per lei la Fisica, per la conoscenza della Natura, uomo compreso.
In realtà, la Fisica è lo studio dei fenomeni della Natura.
Il modo come la Natura agisce, e la matematica traduce quelle azioni.
Fisica e Matematica sono quindi strumenti dell’arte, discipline che si fanno per simbiosi esse stesse Arte: e l’Arte implica emozioni, quindi sentimento.
Il cuore non è adatto a calcolare, ma a sentire, non è il computer, è un programma di vita.
Perciò, quando Massimo è costretto a precipitarsi al nord in seguito ad una disgrazia familiare, si vede costretto a riconsiderare a forza la propria esperienza di vita, le proprie convinzioni, riscoprire tutto il mondo affettivo a lui ignoto celato nel cuore della propria figlia prediletta, e in quello del bambino.
Nel finale sospeso, incalzante e struggente, al capezzale dell’adorato nipotino in coma, a cui occhi è sempre e solo apparso come “Il Pescatore”, Massimo prova a dare filo alla lenza, a trarre in salvo il suo personale Pesciolino. Smarrito e lontano dalla sua isola, vagante in un nebbioso paesaggio padano, a nulla gli può servire calcolare la temperatura, l’umidità, la pressione barometrica, si ritrova protagonista di un dramma lirico, accusa lo stesso straziante dolore di Rigoletto al cospetto della figlia Gilda, e però…però, a differenza dell’opera verdiana, c’è un pesciolino di cui può ancora prendersi cura, un “caro nome che il mio cor festi primo palpitar…” che funge da catarsi e salvezza.
Petrini Francesco di anni nove è la variabile con esponente alla massima potenza, e Massimo è il comune denominatore dell’equazione principe, quella dell’amore, un sunto che va oltre ogni calcolo logico. Petrini Francesco di anni nove è il numero, è l’algoritmo, è la ragione per cui Massimo vive.
Serve un assioma, un dato mancante senza la quale l’espressione non è risolvibile, non il pi greco, ma la costante dell’equazione del cuore: la Speranza.
La sola che permetta la sua risoluzione.