Sangue di Giuda è una imprecazione, un’invettiva, un improperio di rabbia, di delusione, di stizza, pronunciato a volte a mezza voce, con un sibilo amaro, più a sé stessi che ad altri, altre volte invece strillato al mondo intero con toni rochi di ira, di furia, se non di disperazione, quasi ad ammonire o scacciare qualcuno o qualcosa, più che a maledirlo.
di Bruno Izzo
Chi lo usa, più che per acredine, rabbia e disappunto, lo fa spesso per abitudine, un intercalare non tanto per vizio o per vezzo malsano, ma come un voler sottolineare a tratto grosso, e grossolano, un vissuto sgradito, che sembra incaponirsi a perseguitarci, con insolente protervia.
La frase in sé a volte rimarca inconsciamente anche l’evidenza di un triste e doloroso arrendersi, l’inconsapevole issare la bandiera bianca sulle barricate della lotta per l’esistenza, rassegnarsi ad un destino avverso, un capitolare ad una realtà malevole e insofferente, che non si accetta, non era prevista, non si considera equa, nulla è andato come nelle intenzioni e nelle previsioni, e però non si riesce in alcun modo a ribaltare l’iter dei propri giorni disgraziati, anzi sembra che il disagio, il malessere, il mal di vivere sia in fase di progressivo sviluppo nel tempo.
Sangue di Giuda, perciò, non è in sé e per sé una bestemmia, non è una frase che mira per motivi vari a oltraggiare la divinità, i santi e i simboli venerati da una religione, qui ci si scaglia specificamente contro Giuda Iscariota, uno dei dodici apostoli, che, come è noto, tradì Gesù consegnandolo ai sacerdoti per trenta denari d’argento, con una delazione perfida, maligna, crudele, paradossalmente compiuta indicandolo ai centurioni con un bacio, la massima espressione di amore e fedeltà.
Un bacio tenero, dolce, mite, al chiaro di luna per giunta, può esistere aberrazione maggiore e antitetica per un tradimento? Baciare per tradire, c’è chi lo fa spesso, e volentieri.
Sangue di Giuda è allora un modo di dire che sacramenta una manifestazione di amore di chi invece trama un danno o un tradimento; non solo, ma è una frase che in modo irriflesso cela in sé anche il rimorso, il complesso di colpa per gli errori che si sa di aver compiuto volutamente e non per sbaglio, un macerarsi e maledirsi, lo stesso che portò l’apostolo, pentitosi troppo tardi, ad autopunirsi.
“Sangue di Giuda” di Milvia Comastri, in estrema sintesi, né più né meno ci parla di tutto questo appena detto, si racconta qui di donne tradite, ingannate con un bacio, illuse e deluse, circuite e violate, in nome dell’amore o presunto tale, da qui il vituperio cantilenante per molte pagine.
Un libro scritta da una donna e che parla di poche donne e di tante donne insieme, e delle loro condizioni, quasi sempre le stesse malgrado il decorso delle generazioni, tuttora sempre uguali pure se con orpelli diversi, l’essere donna dai tempi dell’Eden è una condizione che pare gravata da una maledizione di Giuda, che le vieta di essere uniche fattrici dei propri destini.
Con una differenza fondante: se il titolo è un’invettiva, la storia è ben altro, è un augurio, una speranza, un lieto fine contro tutto e contro tutti, è un racconto di crescita, di maturazione, di consapevolezza, oserei dire di rinascita ed ascensione ad un empireo di autodeterminazione, sebbene descriva un percorso comunque duro, difficile, irto di ostacoli per ognuna delle quattro protagoniste, il loro Calvario innanzitutto perché donne.
Talora è un incedere per molti versi straziante, ma in definitiva è un trionfo dell’Amore ritrovato e della Colpa ripudiata, la ritrovata consapevolezza scaccia da ognuna di loro ogni addebito, insieme a tutti i tormenti, il fiele ed i veleni che sempre accompagnano le infrazioni addebitate a torto.
Perché da sempre è Giuda che tradisce, colui che si dice militare tra i buoni scientemente opta per il Male, mente, nasconde, prevarica; colei invece che è la Maddalena, peccatrice per definizione, usata, abusata, lapidata, non abbandona l’Amore, la Fedeltà, la Verità che ha scelto di servirsi come guida per vivere, e se lo fa, lo recupera prontamente.
Perché è una donna, soprattutto per questo, non altro.
Come dire: gli uomini a fatica migliorano, le donne lo fanno prima e più facilmente, comunemente.
Milvia Comastri tutto quanto lo racconta bene, con prosa semplice e chiara, fluente, limpida ed incisiva: davvero una bella scoperta questa autrice, una scrittrice precisa, fertile e feconda, con una scrittura agile, slanciata, sottile, in un romanzo di un numero di pagine usuale riporta scorrevolmente quattro personaggi fondanti e tre generazioni significative, rende emblematici fatti, usi e costumi di tempi e situazioni diverse, avvince il lettore, lo inchioda alle pagine, alterna capitoli, pensieri e azioni tutte perfettamente coordinate tra loro.
Non unite ad incastro ma indipendenti, collegate da un filo narrativo sottile e non invadente, l’autrice lascia libere le sue quattro protagoniste di agire come desiderano secondo indole ed inclinazioni proprie.
Ci offre quattro storie nella Storia, srotolando un gomitolo di ricordi lineare, senza strappi, senza nodi, un filo robusto che non è, o non è solo, parentale.
Un racconto al femminile, dove essere donna è la condizione comune di chi pospone il sentimento alla ragione, segue le ragioni del cuore, che significa soddisfare con chiarezza e dedizione i bisogni del corpo e dell’anima insieme, senza nascondersi, celare, mistificare in nome o per timore di una presunta, asserita e bugiarda superiorità dell’altro genere.
Il romanzo d’esordio della scrittrice bolognese altro non è che un riportare il dettato di una donna e di tante donne, e ancor di più, quello che le donne non dicono.
Esprimendo il tutto, dietro un’apparente durezza, severità e rigore, con estrema dolcezza, intensa delicatezza, struggente malinconia, tanto amore e toccante poesia, impossibile non empatizzare per le sue creature. Che non dicono perché a lungo, troppo a lungo, sono state ostacolate, interdette, diffidate a dirlo: perché le hanno tacciate di stupidità, inadeguatezza, incapacità di gestire la propria esistenza se non sotto un’egida maschile, perché sono state ingannate, gli uomini si sono comportati nei loro confronti sempre come Giuda, vendendole per trenta denari per il loro predominio, oppure ingannandole con un bacio, vessandole con i complessi di colpa, i ricatti morali e quanto altro di infido hanno saputo inventare.
In sintesi, certi uomini le loro donne le hanno sposate per convenienza, anche sapendo di non essere in grado di soddisfarne affettività e sensualità; oppure le hanno circuite sotto falsa identità perché distratti da presunti ideali di ben alto lignaggio rispetto ai sentimenti suscitati, negli anni dei cieli plumbei della storia del nostro Paese; o ancora, le hanno semplicemente sfruttate ed usate come un oggetto o un trastullo, qualcuno senza neanche badare alla minore età e relativa innocente inconsapevolezza della controparte.
Troppo spesso e volentieri nel corso dei tempi le donne sono state tradite, ingannate, violate da coloro, partner o meno, sempre uomini, di cui si sono fidate ed affidate, che hanno amato, che hanno difeso ad oltranza, solo dopo lungo penare comprendono che è l’unione tra loro quello che solo le serve per assolversi, e ripartire.
Milvia Comastri più che inventare una storia, fa da testimone silenziosa, lascia che siano le sue quattro protagoniste a sciorinare i fatti, a capitoli alterni, a descrivere gli eventi che hanno scandito le loro singole esistenza, in un modo o nell’altro ma sempre con connotati tragici, drammatici, con venature violente, talmente usuali e comuni da risultare senza alcun sforzo reali e concreti, è un narrare il suo mai pesante o barocco, ti porta su e giù in tempi e situazioni diverse per epoca e protagoniste.
In una cascina, presumibilmente della bassa emiliana, in un’atmosfera grigia e di perenne attesa di qualche novità che non giunge mai, scenario che ricorda tantissimo “Il postino suona sempre due volte”, vivono, o forse sarebbe più esatto affermare che risiedono in simil reclusione coatta, quattro donne, un poker omnicomprensivo dell’universo femminile bistrattato.
L’anziana vedova Celeste, la capostipite della famiglia, che da decenni non esce di casa nemmeno per recarsi nell’attiguo giardino, convive con le sue due figlie.
La maggiore, Agnese, inaridita perché delusa dalla scoperta dell’artefatta identità dell’amore della sua vita, allontana da sé ogni giorno la perenne rievocazione della sua pena, scagliando con ossessiva reiterazione ogni sorta di oggetti e suppellettili a frantumarsi fuori dalla finestra.
La minore, Nadia, è quella che si dice vox populi una figlia della colpa, e come tale additata a pubblico disprezzo, alla quale l’animo sensibile della giovane reagisce concentrando tutti i suoi sforzi nell’apparire, nel cercare di mostrarsi sempre migliore ed esteticamente superiore; perciò, si industria dove la bellezza è richiesta, il cinema, le sfilate di moda, le foto artistiche ed altro, quasi come se la bellezza in qualche modo la riscattasse agli occhi della comune meschinità.
Per la sua ingenuità, è una persona che viene spesso ferita, sfruttata, umiliata, e tutto quanto non fa che accrescere la sua sensibilità e di converso la sua voglia di vivere, sarà pure una donna irresponsabile e vanesia, ma è amabile e bisognosa di amore come non mai, perciò vulnerabile, e per questo di lei gli uomini approfittano come fosse cosa.
L’ultima protagonista è Mira, figlia di Nadia e di uno dei suoi tanti amori occasionali, perciò di padre ignoto, poco più di una bambina, acuta e intelligente, e però priva della necessaria attenzione e tutela in un simile contesto familiare in degradazione.
La giovanissima manca ancora degli adatti strumenti di discriminazione tra Amore e Inganno, Candore e Malizia, Buonafede e Malignità: tuttavia, seppure inconsapevolmente, l’adolescente è l’enzima adatto, il catalizzatore familiare che, agitando la soluzione tutta al femminile della sua famiglia, induce la buona alchimia con un’ottima resa finale.
Quattro donne, quattro epoche diverse, quattro stagioni dell’esistenza.
Celeste è l’inverno degli anni del dopoguerra, sposa e merciaia, figlia da sistemare, moglie del prototipo della brava persona per antonomasia, un uomo del nord diverso per indole, modi e carattere da chi magari la vita l’affronta invece con brio e sfrontatezza tutta mediterranea: e l’inverno, si sa, si scioglie come neve al sole, è un connubio naturale.
Agnese è l’autunno degli anni ’60 e ’70, quelli del boom economico e delle successive immediate contraddizioni, rivendicazioni, stravolgimenti e confusioni, che coinvolgeranno tanti giovani come lei, persi dietro la chimera delle proprie scelte tese a realizzare a forza un cambiamento tanto radicale quanto utopistico.
Nadia è la primavera degli anni ’80, viva la vita edonisticamente come i tempi richiedono, ma nei cinema, come nei sogni, i fondali sono di cartapesta, basta un acquazzone ad infrangerli, e non distingui più le lacrime dalle gocce di pioggia.
Mira è l’estate degli anni del nuovo millennio, ma è anche di più: è luce, è sole, è alla ricerca del personale Atticus che rischiari il proprio “Buio oltre la siepe”:
“…Mira pensa alle parole che Atticus dice a Scout: Quasi tutti sono simpatici quando finalmente si riescono a capire.”
Per cui Mira è oltre l’estate, è tutte le stagioni, è lei l’eroina che vive la vita esattamente com’è, nel bene e nel male, lei è accoglienza del diverso, è incontro, è speranza, è input per nuovi orizzonti.
Grazie anche all’incontro con Stefano, che le spiega:
“…è così che ti vedo, sai? Quattro isole in un braccio di mare stretto. Ma basterebbe costruire ponti, piccoli ponti per collegare le isole. Non è un’impresa difficile. Basta volerlo sul serio.”
La verità è appunto questa, che con i mattoni si ergono tanto i muri quanto i ponti, basta scegliere.
“Sangue di Giuda” è esattamente questo, una storia di muri che poi diventano ponti, è una tetralogia al femminile, un unico excursus storico, dai muri ai ponti, dalla reclusione alla libertà.
Gli uomini?
Francamente, non tutti gli uomini sono farisei, vivaddio i più sono brave persone, come Stefano, e spesso li incontriamo per caso, come accade a Mira: in effetti, l’unico a tradire è stato Giuda, ma gli altri undici si comportarono bene, dopotutto.
C’è speranza per l’umanità, allora, se solo siamo uniti finalmente tutti insieme, uomini e donne, naturalmente sullo stesso piano, con pari dignità, e sarebbe pure ora, sangue di Giuda!
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