Questo è un libro duro, deciso, potente, di quelli che suscitano fortissime sensazioni, tra loro diverse, commuove e indigna, comunque emoziona e ci coinvolge in prima persona.
di Bruno Izzo
Perché è diretto, va diritto al punto già dalle prime righe, si vale di una prosa asciutta ed efficace, esauriente ed esaustiva, cruda e crudista, la sola che serve per sciorinare la vergogna di cui si scrive.
L’assoluta protagonista di questo testo è una sola, l’indecenza più infame di cui continua a lordarsi la razza umana: la guerra. E le sue perfide conseguenze.
L’iniquità più vile, quella di origine di Caino e Abele esportata in grande stile in ogni luogo, ancora più disdicevole allorché si tratta non di una guerra tra diversi per varie cause, ma di un conflitto interno, detto assurdamente civile, tra connazionali, di stirpe comune, fino a ieri sodali e poi in lotta tra loro in nome di una pretesa, e pretestuosa, pulizia etnica di sorta.
“…Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di sé stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.”
Vittime innocenti se ne contano a dismisura in una guerra, in qualunque guerra, in ogni tempo ed in ogni luogo, e sono per di più, paradossalmente, i non belligeranti, quelli non solo incolpevoli, ma anche i più esposti, fragili ed indifesi perché ancora in divenire, non posseggono cioè strumenti atti a proteggersi. Primi tra tutti, i bambini.
“…Dio Onnipotente, benedici questi bambini. Qualunque sia il loro crimine, perdonali. Pecorelle smarrite in un mondo abominevole, vittime della nostra epoca corrotta, non sanno quello che fanno…”.
Ma il fragore delle bombe è forte, fa saltare in aria una madre con la sua bimba da poco nata, figuriamoci, difficile anche per Dio riuscire a sentire questa richiesta.
I bambini, un termine questo che li comprende tutti: i cuccioli, i ragazzi, i minori, da zero agli anni della sopraggiunta maturità, che quando e se giunge e li trova ancora in vita, l’età adulta arriva comunque ben prima della maggiore età anagrafica. I bambini: quelli più innocenti di chiunque altro e paradossalmente proprio per questo destinati a subire soffrendo più di chiunque altro, fame, violenze, dolori nel fisico e, soprattutto, graffi indicibili nell’anima. Lividi spesso incancellabili. L’anima di un bambino, una volta infranta, si scheggia, i residui graffiano anche a distanza di tempo. Sono spunzoni di ferro arrugginito ben nascosti, ma acuminati, aguzzi, taglienti. I bambini imparano certo, in fretta e bene, come si usa dire quello che non ti uccide ti forgia, ma le macerie ormai esistono, la deflagrazione lascia solo pochi resti intatti, e solo con quelli ormai distorti e difficilmente ricomponibili possono porsi all’opera per ripartire una volta passata la buriana, ma si sa, ricostruire con i rottami non assicura mai la piena stabilità originaria.
Le fondamenta conservano intatte le crepe, nascoste ma profonde.
Insite nei pensieri reconditi, anche se non ci si pensa:
“…Non penso. Non posso permettermi questo lusso. La paura è in me sin dall’infanzia…”
Prime vittime tra tutti, sopra chiunque altro, sono allora specialmente i bambini: perché al di là dei disagi fisici, l’angoscia, la paura, il terrore, quello che li annienta davvero è l’anaffettività degli adulti.
Il disamore dell’uomo verso i propri cuccioli, l’incapacità di sottrarli agli orrori, di evitarne gli inevitabili abusi conseguenziali alla violenza, un atto che va contro ogni legge di Natura.
L’assenza assoluta di Amore, quello vero, con la maiuscola, a cui chiunque ha diritto, specialmente in tenera età, questo è quanto uccide l’infanzia. La distrugge, la divora, la insozza.
In tempi di guerra, ogni barlume di umanità si spegne, gli stessi congiunti sono indifferenti alla sorte dei minori, è un “ognuno per sé e Dio per tutti”, un “si salvi chi può” quanto mai diffuso e crudele.
La fame e la violenza, il dolore e la disperazione, superati certi limiti, malgrado l’amore ed ogni espediente possibile, ogni rinuncia ed ogni sacrificio a favore dei propri cuccioli, portano uomini e donne, genitori, nonni, tutti ad un punto di non ritorno, allorché esacerbati e inaspriti fino allo sfinimento, giocoforza ognuno può a stento salvaguardare sé stesso, e non altri.
E spesso nemmeno allora.
Un bambino resta solo, anche se ha ancora congiunti in vita, forse proprio allora è ancora più solo, deve cavarsela in proprio, sbrogliarsela al meglio delle sue capacità acuitesi d’improvviso, deve struggersi, arrovellarsi, disfarsi, consumarsi per porsi in salvo. Pagandone il prezzo, salatissimo.
In estrema sintesi, questo è il tema della “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof: non è però, si badi, un comune libro che parla di bambini violati dalla turpitudine della guerra, abbandonati a sé stessi, e che tutto malgrado con intelligenza, ingegno, capacità riescono in qualche modo a cavarsela.
Affatto: questo è un testo insolito perché blasfemo, descrive l’Uomo a sua immagine e somiglianza, quando dà il meglio di sé, che coincide sempre con le sue azioni più infamanti, laide, lerce, quando cioè arreca danno all’esistenza dei suoi simili, con tutto quello che ne consegue.
Ecco quindi che la trilogia è un triplice racconto tre volte turpe perché parla di turpitudine, abietto alla tripla potenza perché descrive abiezioni, abominevole con esponente tre perché racconta di situazioni infami, meschine, spregevoli, è un romanzo che non nasce dalla fantasia dell’autrice ma è una cronaca di pazzia, la trilogia della Kristof riporta storie di ordinaria follia, quella che quotidianamente si avvera ogni giorno in qualche parte del mondo, talora neanche tanto lontano, e di cui siamo perfettamente al corrente, non facciamo più una piega, ne siamo indifferenti perché ormai assuefatti ad ogni forma di conflitto armato, di per sé stesso sciagurato, sozzo, sporco, e di cui ci sdegniamo fieramente vedendo i piccoli bimbi spauriti, sporchi, terrorizzati che si aggirano in lacrime tra le esplosioni…purché il tutto avvenga abbastanza distante da noi.
La Kristof non fa romanzi, sciorina un elenco di fatti: perciò la sua prosa è secca, asciutta, non perde tempo né sciupa pagine per arzigogolare o dare sfoggio di cultura o di sapienza narrativa.
Inizia raccontandoci di due bambini gemelli, perfettamente uguali tra di loro nel fisico e nell’animo, due metà speculari e complementari, uno yin e uno yang infantile, abbandonati a se stessi e costretti a cavarsela da soli in un mutuo soccorso che esclude giocoforza chiunque altro estraneo alla loro ristretta duplice cerchia genetica: non perché siano privi di empatia umana, tutt’altro, ma perché il rinchiudersi in sé stessi è un’arma, forse l’unico espediente possibile alla loro età per la propria salvaguardia fisica e mentale. Trovano unico rifugio, salvezza e conforto in sé stessi: non a caso l’autrice racconta di due gemelli, perché intende far risaltare in doppia copia tutta la brutalità la crudeltà, l’efferatezza a cui i due bimbi sono esposti, innalza al quadrato tutta la violenza e l’oscenità insita nella privazione dell’infanzia a cui sono costretti. Parimenti non a caso per tutta la prima parte i due bimbi non hanno un nome che li distingua, verranno citati molto in seguito, perché sono l’incarnazione a doppio esponente di tutta la sofferenza patita dai propri simili, e l’orrore di per sé è ad un tempo universale e indescrivibile, non necessita perciò di nomi propri.
Tutte le afflizioni, le angosce, i patimenti, sono uno strazio che gli stessi bambini non sanno esternare, per una forma di innocente ed ingenuo pudore, ne hanno fatto eventi usuali della loro esistenza che almeno in apparenza passano senza lasciare strascichi o turbe di sorta, può essere riportata solo in gran segretezza in un grande quaderno, gelosamente celato a chiunque.
La prova più grande a cui saranno sottoposti è la loro separazione, l’evento certamente più traumatico, violento e conturbante a cui possono essere sottoposti due metà di un’unica essenza: ma non esitano a compierla per assoluta necessità di sopravvivenza personale. Ad ogni costo, a qualsiasi prezzo: finanche passando per un campo minato nell’unico modo in cui è possibile farlo, facendosi precedere da altri e utilizzandoli come guide sacrificali per segnare il cammino sicuro. Fa niente che si tratti di congiunti stretti. Si separano: ognuno rinuncia ad essere il custode di suo fratello, ad un pezzo di sé.
Tutti questi choc non passano senza lasciare tracce, in qualche modo serve mentire a sé stessi per mantenere un minimo di sanità mentale: puoi allora costruirti una menzogna, poi una seconda, poi una terza. Per concludere con un unico assioma: gemelli o no, l’orrore è unico, individuale.
Perchè ognuno non ha che una sola esistenza, e quella vive: se è una vita segnata dalla violenza, prima o poi l’assurdità si trasmuta in verità, il delirio in chiarezza, l’anomalia in coscienza.
Lo dice Lukas al gemello Klaus:
“…Hai dimenticato quanto ci amavamo? Io non ti ho dimenticato, Klaus.”
E Klaus risponde altrettanto chiaramente al gemello Lukas:
“Nemmeno io. Ma non serve a niente rivederci. Non lo hai ancora capito?”
In sintesi, puoi divenire il maggior poeta del Paese, ma non trasmutare in candore e innocenza storie di ordinaria follia. Tanto vale andarsene. In treno.
“…Il treno è una buona idea.”