Le favole incantano i bambini, e non solo loro, specie se ben presentate, essenzialmente perché presentano un’immagine edulcorata della realtà.
di Bruno Izzo
Rassicurano, infondono ottimismo, fiducia, speranza.
Nelle fiabe la distinzione tra bene e male è netta e precisa, neanche si considerano le infinite sfumature ed i distinguo tra i due estremi; perciò, già solo da questo si comprende che è uno stato di fatto improponibile, una realtà utopica, però non per questo smettono di produrre un loro fascino.
Per quanto le trame appaiono inverosimili, gli eventi inevitabilmente prima o poi si incastrano al posto giusto secondo la morale corrente, magari con l’intervento di una qualche forza del Bene che irrompe al momento giusto, i cattivi di turno sempre ne escono sconfitti, il lieto fine è immancabile, se non inesorabile, lo ribadisce con costanza ogni volta il rigo finale: “…e vissero tutti felici e contenti”. Gran bella cosa, indubbiamente, di favole se ne sente il bisogno, fosse solo per rincuorarci.
Le cose nella vita reale vanno assai diversamente, purtroppo o per fortuna, tant’è che le prime versioni delle fiabe più popolari, nella loro stesura originale, erano molto più crude, violente e truculente, affatto adatte all’infanzia candida ed ingenua, ed infatti non a quella destinata nelle prime intenzioni.
Fatto sta che nelle fiabe le donne sono tutte belle, brave, buone; regine e principesse, o che lo diventeranno, tanto dolci e delicate e dai lineamenti gentili, dai capelli a boccoli d’oro che nessuno avrebbe l’ardire di tirare con cattiveria, e gli uomini sono sempre e soltanto principi affascinanti, dai sani valori, incapaci di fare del male a qualunque donna, cavalier serventi che quasi non osano sfiorare tanta beltà se non con un bacio rivitalizzante.
Appunto, sono favole.
Questa premessa serve per esplicare al meglio la Biancaneve del titolo di questo bel libro della scrittrice bolognese Marilù Oliva; il notissimo personaggio della favola per eccellenza è qui usato come un emblema, quello della reale condizione femminile, scandito per discendenza diretta tra varie figure che agiscono su piani temporali diversi nel secolo per eccellenza.
Una storia di donne, donne scalfite per motivi diversi, qualcuna letteralmente scorticata nell’anima, un racconto accorato e accurato nei particolari documentati, che origina dal buio, dalle tenebre della ragione, per giungere fin quasi ai nostri giorni. Un libro che consiglierei da adottare nelle scuole.
Un lavoro elaborato bene, con una prosa fluente, termina come deve terminare, non con un lieto fine, nella gioia o in piena luce, che sarebbe un evento solo favolistico, ma più realisticamente si conclude in maniera concreta, con la ricongiunzione, il ritrovarsi e il riconoscersi, con un ripartire nell’unico modo efficace possibile, insieme, come solo le donne sanno e sono in grado di fare.
Perché detengono un potere unico, un privilegio che non è mai una condanna, la maternità.
Sono madri, possono esserlo, lo diventano, magari anche loro malgrado, e questo le immunizza tutte, popolane e principesse, le rende in grado di risvegliarsi in autonomia, anche dopo che le vengano propinate più di una mela avvelenata.
Questo è un romanzo che discetta sulla maternità, su madri e matrigne, figlie e figliastre.
Biancaneve della favola è una creatura candida e buona, vessata da una matrigna, soccorsa infine in rapida successione da un cacciatore dal cuore tenero, da sette nani operosi, da un principe dal fascino taumaturgico, insomma tutti uomini senza i quali la sventurata ragazza non avrebbe scampo.
L’ultimo lavoro di Marilù Oliva, professoressa di lettere in un liceo di Bologna, insegnante prestata, e direi molto bene, alla narrativa, è invece tutta un’altra storia, del tutto reale, un racconto oserei dire pedagogico, brioso, agile, spedito, che passa con uguale disinvoltura e pari efficacia descrittiva e dialogata tra linee temporali diverse, lontanissime solo in apparenza le une dalle altre, origina per discendenza diretta dagli anni dell’ultimo conflitto mondiale fino ad epoca più recente.
Una trama rafforzata, tant’è che di Biancaneve ne conta due, una più antica, Lili, una sorta di Liliana Segrè, una ex reclusa nei campi di sterminio, vittima senza nemmeno essere ebrea, sopravvissuta alla più grande barbaria del secolo, e una più recente, Bianca, prototipo delle giovani d’oggi impegnate in prima linea a difesa delle moderne barbarie odierne, le violenze di genere.
Per ambedue la vita è stata matrigna, ognuna ha avuto uomini nella sua esistenza da cui ha avuto certamente amore e tratto supporto all’occorrenza, il proprio papà per Bianca, oppure il compagno Elio per Lili, però nessun uomo è servito compiutamente, e da solo, al loro soccorso, l’epoca delle favole è tramontata da un’eternità, la matrigna non ha più ragione di essere, e se lo è, è solo perché è lei stessa una vittima, una figliastra prima ancora di vedersi affibbiata una figlia.
Figuriamoci un principe azzurro, che tra l’altro nella versione originale della favola non ha alcun ruolo attivo nel risveglio coatto, esercitato casualmente da uno scossone:
“…avvenne che i servi inciamparono in uno sterpo e che, per l’urto, il pezzo di mela avvelenata che aveva soffocato Biancaneve le uscì dalla gola e lei si risvegliò.”
Oggi come sempre, e tutta la produzione letteraria di Marilù Oliva è lì a ribadirlo, le donne si salvano da sole, se solo lo vogliono e gli si permette liberamente di farlo, non necessitano di nessun uomo, meno che mai di un principe.
Loro di per sé sono Regine di sé stesse, perché sono madri anche se indossano la veste di matrigna.
Da sole si salvano le protagoniste di questo libro, ciascuna pagando un suo prezzo, totale e totalizzante, ambedue unite senza saperlo, e infine riunite a compimento di un ciclo vitale tutto al femminile. Questo non è un racconto di donne diverse in epoche differenti, invece trattasi di un unicum, un veleggiare tra un presente difficile ed un passato atroce, tra usuali tragedie odierne, per esempio tossicodipendenze, stragi terroristiche, mostri di Firenze e compagni di merende, drammi e tradimenti familiari, e il sottofondo altrettanto tragico ma certo non usuale, per fortuna unico, disperatamente inammissibile, con strascichi ancora attuali, del più vile abominio dell’uomo sull’uomo, quello dell’olocausto, tanto orrido e tremendo da immobilizzare l’intervento riparatore di qualsiasi dio della terra e dei cieli:
“…ogni benedetto giorno io torno agli anni della guerra, quando vennero permesse atrocità che nemmeno Dio perdonerà mai.”
Con uno spot su un ulteriore degrado a carico dell’umanità di genere, come quello esercitato nel Sonderbau, la casa delle bambole distrutte, il bordello dei campi di concentramento, ad utilizzo esclusivo per il piacere dei kapò, delle SS e dei peggiori aguzzini che mai si videro transitare in quei luoghi di abiezione totale:
“…una sezione trascurata fino ad oggi anche dalla storiografia ufficiale, i bordelli dei lager. Pochissime donne che vi hanno lavorato hanno deciso di lasciare testimonianza, per una questione di pudore, di vergogna, di rimozione.”
Nessuna favola inventata eguaglia quell’orrore, al peggio non c’è mai fine, se sei passato per tua sfortuna per un girone infernale in cui i semplici dolori fisici rappresentano una realtà idilliaca:
“…Ci si abituava alle botte, perché lì batteva chiunque avesse un barlume di potere e più si scendeva verso il basso di quella mefistofelica gerarchia più si bussava forte.”
La storia inizia presentandoci la giovane Bianca, quando è ancora una bambina dolcissima, innamorata persa del suo papà, che lei vede come il suo baluardo contro la scontrosa anaffettività della propria madre Candi, che del personaggio dei cartoon d’epoca degli anni ’80 ha casualmente solo il nome. Prosegue con efficaci flash back, oserei dire in bianco e nero per la loro chiarezza descrittiva di fatti e personaggi d’epoca, che ci presentano l’altra protagonista, l’alter ego più grande di età, l’ancora ragazzina Lili costretta suo malgrado a nozze combinate con un uomo che non l’ama e non può amarla, neanche può in qualche modo offrirle rifugio e protezione durante la tempesta nazista che si abbatte sull’Europa degli anni ‘40.
Perciò non lasciatevi fuorviare dal titolo, qui si racconta di ben altro che di favole con candide fanciulle dalla pelle bianca come la neve, placide belle addormentate in attesa del deus ex machina, naturalmente un uomo, senza le quali le sprovvedute mai emergerebbero dal loro sonno secolare.
Questo è un testo drammatico perché vero, descrive semplicemente la realtà dell’esistenza, che non è talora madre ma più spesso, lei sì cattiva matrigna, dotata della stessa disumanità delle matrigne delle fiabe. La vita per qualcuno è una matrigna, che troppo spesso, con troppa frequenza per essere un caso, mostra il suo volto più severo, il disamore maggiore, il lato più duro, sofferto e violento nella quasi totalità dei casi come una sorta di appannaggio esclusivo per il genere femminile.
Questo sempre, da sempre, le donne pagano il prezzo maggiore, in tutti i tempi ma mai in maniera tanto eclatante e documentata come nel Novecento, secolo di grandi eventi, di grandi donne, di grandi guerre e di infinite atrocità, non un secolo ammodo per le ragazze, diciamolo.
Rendere al meglio l’epopea delle donne in questo tempo così difficile risulta arduo con una sola protagonista, per questo la scrittrice ce ne offre due, la giovane bolognese Bianca e l’ottuagenaria Lili, in linea diretta voci narranti a capitoli alterni e che tessono i fili della trama intarsiando un magnifico arazzo compiuto, svelato nella sua magnificenza, in tutto il suo ordito intersecanti più esistenze, solo negli ultimi e struggenti capitoli finali.
Solo di sfuggita il libro è incentrato sulla figura di Biancaneve, una delle favole più note e popolari, ma di fiabesco questo libro non ha niente, questo è un racconto di vita reale, narra di donne vere e non vissute solo sulla carta, davvero un bel romanzo, ben scritto, avvincente e appassionante, non un’elegia del femminile ma una cronaca al femminile, un libro scritto da una donna per le donne, perciò non verosimile, ma concreto, reale, vissuto, la scrittrice è padrona del suo scritto, sa benissimo di cosa sta parlando, dirà lei stessa che non è uno scritto autobiografico ma è altrettanto vero che se lo fosse. Marilù Oliva prende in pugno l’esistenza delle sue protagoniste, non ne decanta la storia, la fa vivere facendola raccontare da loro stesse in prima persona. direi che è solo il pretesto per l’autrice per ribadire, proseguendo sulla falsariga della sua precedente produzione libraria, che l’esistenza per alcuni, e per le donne in particolare, non è facile, specie per le donne l’esistenza, e non per loro colpa, è matrigna. Una matrigna come quella di Biancaneve, appunto, che persa dietro il ribadire la propria supremazia estetica, non esita a richiedere di estirpare il cuore della rivale: ma questo accade esclusivamente per un destino a ritroso, colei che richiede un tributo a sua volta è stata vittima di un sacrificio, forse non ha dovuto sentirsi strappare il cuore, ma una chioma fulva sì, tirare i capelli alla propria figlia è un modo come un altro di esorcizzare il ricordo di un abuso identico, e questo a sua volta deriva da una violenza perpetrata in un luogo dove l’inferno presentava la sua faccia migliore.
Nessuno sta solo sul cuore della Terra, tutti abbiamo bisogno di amore.
Le donne lo sanno, sono tra di loro legate per discendenza diretta:
“…ciò che accade al filo d’erba, è inscindibile dall’intera foresta.”
L’amore è necessario per una crescita rigogliosa, sempre, finanche quello di una matrigna, non è detto che sia il peggiore, anzi, spesso è vero il contrario, dopotutto anche una matrigna è una madre.