Nisida è un’isola minuscola, la più piccola delle isole dell’arcipelago campano, vicinissima a Napoli, a cui è fisicamente unita da un lungo pontile.
di Bruno Izzo
Questo legame con la terraferma addirittura la fa confondere con una penisola, e invece è isola con tutti i crismi, di origine vulcanica, anche incantevole e affascinante, alla pari delle più note Capri, Ischia, Procida: appare come quelle una piccola perla, incastonata nell’azzurro del golfo partenopeo.
Per bellezza e posizione strategica, è da sempre appetita da molti squali per lucrose speculazioni turistiche, invece lo Stato resiste ad ogni lusinga, almeno finora, e l’ha destinata da essere sede di un carcere minorile. Un signor carcere, in verità, un moderno organismo di recupero e autentica riabilitazione del reo, un complesso di elementi tesi a fornire ai giovani reclusi un minimo di istruzione, di corsi professionali, laboratori e quanto altro, compresi strumenti di supporto psicologico, volti a indurli a costruirsi un futuro prossimo diverso da ciò di disastroso che, in precedenza, li ha precipitati nella realtà di custodia.
In questa struttura, ai minori reclusi per i reati più disparati, viene quindi offerta la possibilità di una rieducazione tesa ad un reinserimento reale nella società non malavitosa, invero impresa alquanto difficile e difficoltosa, malgrado gli sforzi encomiabili di operatori e istituzioni.
In questo percorso irto di ostacoli, non è certo sufficiente, non è garanzia di successo che la struttura per il recupero dei minori abbia una collocazione paradisiaca per sede e strumenti.
Nemmeno possono sopperire, per quanto davvero ammirevoli, gli sforzi di quanti, dal direttore alle guardie, dagli educatori agli operatori professionali e agli insegnanti, ogni giorno si prodigano, con sacrificio e abnegazione personale, a restituire una prospettiva di vivere diversa, fuori dai giri delinquenziali, alle giovani vittime di circostanze avverse, tutti, chi più chi meno, poco più che bambini, malgrado le apparenze.
Perché, diciamolo francamente, i minori privati della libertà personale altro non sono che bambini, se non nel fisico e nell’ingenuità, malizia e furbizia, certamente nell’immaturità, incoscienza, sprovvedutezza e superficialità del loro agire.
Minori finiti loro malgrado, ed esclusivamente per nefasti influssi ambientali, nelle maglie della giustizia penale.
Gli addetti ai lavori, ed è un lavoro assai delicato il loro, provano a plasmare diversamente, per quanto concesso, e ad indirizzare al lecito i loro assistiti, tentano di fornire agli animi fragili e acerbi dei giovani reclusi una parvenza di sicurezza, di conforto, di valori in cui credere e condividere.
Se spesso il successo non arride ai loro sforzi, è semplicemente perchè viene pure il giorno della fine pena, e i ragazzi tornano in libertà:
“…torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”.
Così, semplicemente, Valeria Parrella presenta lo scenario essenziale del suo “Almarina”.
Un bel libro, un romanzo breve, in cui l’autrice parla di tanti argomenti insieme, ci riporta di Nisida e della casa di reclusione dei minori, delinea con tratti brevi e incisivi i personaggi che lì vivono, sia che ci lavorino o vi siano coattivamente domiciliati, e di questo fa pretesto per narrare di affetti, di famiglia, di figli, in definitiva racconta di sentimenti, di amore.
Lo fa per spunti, non approfondisce mai la tematica a fondo, sembra suggerire, anziché rivelare.
Valeria Parrella si esprime per immagini, e immagini scrive, fornisce uno spunto, fissa un istante, un singolo scatto, poi lascia che sia il lettore a delineare gli sviluppi del discorso, come l’avverte la propria sensibilità. La scrittrice napoletana sussurra, non dice; suggerisce, non declama; propone, non afferma. Il suo dire crea suggestione, e lascia al lettore ogni interpretazione; racconta, ma in silenzio.
Presenta una piccola isola che potremmo considerare l’emblema del vivere a misura normale d’uomo, e che è invece il simbolo dell’assurdità del sistema giudiziario.
Vivere su un’isola più o meno felice, per un breve tempo, può forse servire ai giovani e inesperti naufraghi qui giunti per le burrasche dell’esistenza, a ritemprarsi, imparare a governare meglio le vele, riparare il fasciame degli scafi lesi da condotte di vita sviate, ma ributtare poi di nuovo i derelitti tra i marosi in burrasca, senza offrirgli bussole e sestanti adatti per condurli in altri porti, significa destinarli a schiantarsi ancora sugli scogli, anche più frastagliati e pericolosi.
Nisida non basta, serve che anche quanto lo circondi assuma contorni non diremmo paradisiaci, sarebbe utopistico pensarlo, ma a misura d’uomo.
Serve la famiglia, urge la scuola, occorre il presidio del territorio, necessita rivalutare l’esistenza e ripristinare una scala di valori, ma più di tutto, serve amore.
Quello che manca a questi ragazzi, poco più che bambini, non sono le cose, i cellulari, gli abiti costosi, gli accessori di grido, i paradisi artificiali ed il mito del successo e del facile arricchimento.
A loro così fragili, teneri e violenti insieme, talora brutti, sporchi e cattivi ed in realtà bellissimi, va assicurato prima di ogni altra cosa affetto, calore, dolcezza, attenzione, cure, solo così possono crescere sicuri e fiduciosi in sé stessi e nei loro simili, e non perdersi lungo il tragitto verso l’età adulta e responsabile.
Tutto quanto è ben chiaro, e l’esperienza quotidiana glielo ribadisce puntualmente, alla protagonista, Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica presso la struttura per i minori reclusi di Nisida, un insegnante vecchio stampo, di quelli che credono nel loro ruolo e nella loro indispensabile funzione educativa, la “maè”, la maestra, come appellata dai ragazzi, perché davvero la donna almeno ci prova ad essere maestra di vita prima di fornire strumenti di calcolo, e gli alunni lo sentono.
La donna, ancora giovane anche se avanti negli anni, ogni giorno lascia fuori dalle sbarre, in un apposito armadietto nello spogliatoio, tutto quanto non ammesso nel carcere, cellulare ed effetti personali, prima di iniziare la sua giornata lavorativa.
È un gesto simbolico, da intendere come lasciare fuori tutti gli orpelli della propria esistenza, il dolore atroce di essere inaspettatamente vedova da poco, per esempio, oppure l’amarezza di non aver avuto figli propri, o ancora la tristezza, provata insieme all’amato marito, di non aver completato positivamente un iter di adozione, e logica conseguenza a tutto questo l’afflizione e l’angoscia del vuoto e della solitudine che la opprimono.
Elisabetta Maiorano riempie la propria esistenza dedicandosi ai suoi “ragazzi”, stando bene attenta, come tutti gli adulti che lavorano nella struttura, a non affezionarsi, a non legarsi oltre l’umana possibilità, perché appunto, prima o poi, gli eventuali rapporti di empatia instauratosi, per quanto realizzati a fatica, sono destinati a terminare, Nisida è una tappa temporanea, più o meno breve, nel percorso di vita degli ospiti.
Solo che l’esterno non offre spesso, se non mai, alternative valide, latitano la famiglia e le istituzioni preposte, è quel tipo di società stessa, per come è concepita, che inevitabilmente deteriora il giovane, e se pure ne ha le migliori intenzioni, lo distoglie da un cammino diverso, lo indirizza su un percorso negativo. Cominciando dalla famiglia stessa, dai padri con i figli:
“…capisco che si possa odiare un figlio al punto di ucciderlo, non capisco come lo si possa stuprare.”
È quanto è successo ad Almarina, un sedicenne romena, poco più che una bambina, uno scricciolo di donna, distrutta nell’anima e nei sogni, si vede anche da come compita a fatica il foglio con le operazioni aritmetiche indicate dalla professoressa Maiorano:
“…Dentro il foglio c’è dunque questo uomo che la violenta e poi le rompe le costole, suo padre. E un fratello che aveva sei anni quando lei l’ha portato con sé in Italia…Il viaggio l’ha pagato sul camion stesso, a tutti, ogni volta che hanno voluto.”
E le madri? Questo non è un romanzo al femminile, per cui:
“Le madri non sono da meno, mi stia a sentire. L’altro giorno al colloquio una madre ha detto a suo figlio che se avesse tradito la famiglia lo disconosceva, glielo ha detto a segni, ma ora ormai i segni li capiamo.”
Anche Valeria Parrella conosce la lingua dei segni, e con i segni sa esprimersi; questo è un libro segnato, più che scritto, ed espone chiaramente cosa non bisognerebbe mai fare con i giovani reclusi: non metteteli alle strette.
Questa la realtà di Almarina, è messa alle strette malgrado l’orrore da cui è sfuggita e per cui pare quasi l’abbiano voluta punire, rinchiudendola a Nisida prendendo a pretesto il suo aver rubato un cellulare.
Nelle moltiplicazioni, cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Almarina però non è brava nelle moltiplicazioni, lo è invece nelle addizioni.
Elisabetta Maiorano, che i numeri li conosce, li insegna e li ha sempre amati, compie allora un gesto rivoluzionario, che non dovrebbe fare in quel contesto, dove serve imparzialità e distacco: si affeziona ad Almarina, se ne prende cura, la prende con sé.
Perché ambedue, la donna e la bambina, sono sole, e vuote, e moltiplicandosi tra loro, il prodotto non cambia, si ottiene l’identica solitudine, lo zero, l’unico numero che moltiplicandosi con il suo doppio resta identico a sé stesso.
Nell’addizione però non funziona così, la somma è un risultato diverso dai membri dell’operazione, da Elisabetta e Almarina insieme può nascere per esempio la ricerca del fratellino di Almarina, sarebbe a dire il concretizzarsi di una speranza di altra vita, l’aggrapparsi ad uno scoglio nel mare.
Più di uno scoglio, un’isola minuscola di roccia vulcanica, stabile e sicura. Come Nisida.