Questo romanzo è latore di un pensiero fiammante, letteralmente; “L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany McDaniel è una lettura corposa ed avvincente, ma va compresa, recepita, assimilata bene, per apprezzarne in pieno il valore, e soggiacere all’incanto che ne permea le pagine. È tanta roba, proprio.
Lasciatevi trascinare dalla corrente della storia: è una realtà raccontata, potrei definirla una lunga e suggestiva narrazione a voce sola, una rievocazione precisa e avvincente di fatti e avvenimenti.
Ambientato nella torrida estate del 1984, in un paesino della provincia rurale americana, con uno stile che rievoca certe atmosfere de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, o anche certi romanzi di Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, e finanche Stephen King, da tutti questi se ne distacca, per ammantarsi in un’aura tutta sua, unica e originale, fantastica ma non fiabesca.
Il testo semplicemente altro non è che una esposizione a voce, talora con timbro sonoro cristallino e prepubere, talaltra rauco e cavernoso, una lettura labiale, alla lettera.
Un parlato superbo e suadente insieme, che risuona dallo stesso personaggio principale, Fielding Bliss, voce narrante in prima persona, prima adolescente e poi vecchio homeless su un camper da rottamare. Perciò su due piani temporali lontanissimi tra loro, a volte difficili a distinguersi.
Non è una lettura facile, è un bel tomo di circa 400 pagine, all’inizio parte a razzo, e sorprende, poi sembra perdere tono, per risollevarsi infine in un crescendo inarrestabile come una marcia trionfale, in un turbine di sensazioni tutte struggenti, dolorose, toccanti, vivissime e soprattutto ardenti, letteralmente brucianti, fino alla fine.
Lascia il lettore, almeno con me è successo, con un senso di struggimento, ma anche lieto della storia e grato alla sua autrice. Non è un testo facile, lo ripeto, e non perché non sia ben scritto, tutt’altro, è scritto molto bene, leggibile, scorrevole, rifinito e incisivo nei personaggi e nei luoghi, anche quando redatti con pochi tratti graffianti, e tradotto anche benissimo nella nostra lingua.
Tant’è che risuona in testa come una melodia delicata ma energica, le note non diventano mai stridule nemmeno nei momenti più acuti della storia, e ve ne sono parecchi.
Non è di facile lettura perché è un libro potente, eccezionale, emozionante.
Come tutti i libri con tali caratteristiche, presenta diverse chiavi di lettura: possiamo considerarlo come un testo sull’infanzia perduta, sulla difficile impresa del crescere, sul divenire adulti come Dio comanda, umani, ragionevoli e tolleranti. E ancora altro.
Espone inoltre tematiche delicate come la disabilità ed il rifiuto a priori del diverso, sotto qualunque forma questo appare. Parla senza mezzi termini, giusto per intenderci più nello specifico, di razzismo, di omosessualità, di preconcetti, di manipolazione del gregge, di violenza, di abusi. E oltre.
Esamina il consorzio civile come in effetti è, quindi mai realmente a misura d’umanità, e mai compiutamente rispondente al vero come appare.
La realtà umana è stridente, ricca di contraddizioni e di coupe de theatre, imprevedibile e imponderabile.
Tutto inizia con una apparentemente bislacca iniziativa del padre di Fielding Bliss, il protagonista principale; il suo papà è persona curiosa già nel nome di battesimo: si chiama infatti Autopsy Bliss.
Per storia personale e per intima convinzione propria, consolidata dalla propria esperienza di vita, Autopsy Bliss è un uomo, un avvocato, di più, un pubblico ministero, che si considera il setaccio della giustizia. Fa onore al suo nome di battesimo, che significa “vedere con i propri occhi”, è infatti un magistrato straordinario, che si impegna al meglio delle sue capacità per giudicare in equità e coscienza, si accerta di tutto e valuta con attenzione cose e persone con gli occhi ben aperti, conscio della delicatezza che la sua professione richiede.
Tuttavia, è anche un uomo di rara sensibilità d’animo, e perciò schiacciato nell’intimo dal peso dell’impegno etico e morale che il suo compito richiede, dalla responsabilità di giudizio dei mali degli uomini, che egli ritiene di per sé facoltà sovraumana, e che però gli compete.
Un compito non facile, per un pensatore simile.
Autopsy Bliss non gioisce per ogni vittoria in tribunale, anzi, si macera spesso nel dubbio di non aver giudicato per il meglio, di aver provocato ingiustizie, di aver commesso errori irreparabili ai danni dei suoi simili, di non essere stato all’altezza del suo compito, magari inconsapevolmente, si rende conto che il suo compito in definitiva è di setacciare i fatti della vita, ma che poi quanto rimane sul fondo del setaccio, potrebbero non essere affatto le pepite d’oro della verità.
Autopsy Bliss è un buon padre di famiglia, un uomo buono e generoso, un pilastro della comunità in cui vive. Conosce la vita e legge nel cuore degli uomini, comprende come pochi altri che non esiste assoluta chiarezza e onestà nel vivere quotidiano, ognuno ha sempre uno spicchio di sé celato agli altri, fa parte dell’animo umano serbare un lato oscuro, un lago di pulsioni che talora mai, ma talaltra quanto prima, sotto diversi e svariati impulsi, può eruttare azioni malevoli.
Il concetto di bravo cittadino sempre e comunque ossequioso di Dio e delle leggi è un falso, è più facile invece che sia il male ad essere il seme maggiormente diffuso e che si impianta con relativa facilità, serbandosi con altrettanto agio in chiunque.
Autopsy Bliss quanto detto lo avverte chiaro nella società e nel tempo in cui vive, lo vede con i propri occhi, come il suo nome suggerisce, e si ostina a credere nell’uomo, è certo che un minimo di bene sussista sempre anche nel male assoluto, tutto sta ad alimentarlo perché da brace diventi fiamma.
Il fuoco ed il caldo non sono, né possono essere, prerogativa assoluta dell’inferno.
Soprattutto spinto dall’intenzione benevolmente provocatoria di far assimilare alla comunità in cui vive, chiusa e retrograda, i concetti dell’agire senza pregiudizi e preconcetti nei confronti dei propri simili, con compartecipazione e solidarietà, Autopsy fa pubblicare a proprie spese sul quotidiano locale una insolita inserzione in cui, platealmente, invita personalmente e con tutte le formule d’uso il Diavolo in persona a visitare il suo paese Breathed, in Ohio.
Terra di peccatori sì, e come tali adepti del demonio, ma anche di uomini dotati di libero arbitrio e perciò capaci di perdonare, come Autopsy auspica, e che il diavolo non temono, non esiste nel bene.
Una provocazione, certo, e non altro, uno spunto di riflessione, collettiva e individuale.
Una simile notizia, in quel microcosmo fondamentalmente ignorante e arretrato, becero e meschino, provoca ovviamente ilarità, sarcasmo, anche biasimo e riprovazione per una presunta mancanza di rispetto per le cose religiose, ed è fonte di dileggio.
Senonché, poco dopo, il Diavolo si presenta davvero in paese. In risposta vivente all’annuncio.
Il primo ad accoglierlo è, guarda caso, il figliolo tredicenne di Autopsy, il piccolo Fielding, che da questo momento diventa la voce narrante ed il protagonista assoluto del romanzo.
Il Diavolo arriva…e come arriva?
In pompa magna, con tutti gli onori, tra fuoco e fiamme, forcone, corna, odore di zolfo, piedi a zoccolo? Affatto. Peggio, assai peggio, dati i tempi e i luoghi.
Si presenta come un ragazzino, un pari età di Fielding, un adolescente di colore, con gli occhi verdi, vestito con una lercia salopette di jeans, incrostata di polvere, di sporco, di sudore, e chissà quanto altro, che a malapena ricopre un corpo macilento percorso da cicatrici.
In particolare, sulle scapole, quasi gli fossero state tarpate delle ali…dopotutto, il Diavolo è un Angelo, per quanto decaduto, e gli angeli le ali le hanno.
Un ragazzino di colore che afferma con la massima serietà di chiamarsi Sal, con semplicità, umiltà e nessun sussiego, un nome composto dalle iniziali di Satana e Lucifero, dichiara apertamente di essere il Diavolo, di venire dall’inferno, e di essere stato convocato tramite l’avviso sul quotidiano dal padre di Fielding. Manco a farlo apposta, la prima persona in cui Sal si imbatte, e a cui candidamente e con la massima chiarezza si presenta, è proprio il giovane Fielding, che lo accoglie senza remore e senza pregiudizio come un qualsiasi amichetto di pari età e se lo porta a casa.
Va da sé che il piccolo Sal viene unanimemente considerato un ragazzino fuori di testa, probabilmente scappato di caso, un adolescente problematico e confuso magari maltrattato, o peggio ancora abusato, date le cicatrici, i lividi e gli evidenti segni di percosse, fatto sta che il modo direi profondo e forbito come si esprime e di cosa parla, i continui riferimenti di carattere biblico o pseudoreligioso, che fanno espresso riferimento a Dio, alla caduta dal Paradiso, agli inferi e ai cieli, inducono una suggestione collettiva nell’abitato, anche se il suo aspetto risulta quantomeno inconcepibile rispetto a come viene normalmente immaginato il demone. Per di più, è un ragazzo di colore, e tanto basta agli strati della popolazione dichiaratamente razzista, i più nel sud degli Stati rurali americani, per generare rifiuto, subodorare un inganno, neanche velatamente usarlo come ideale motivo e causa diretta dei guasti del paese, ad iniziare dal coincidente caldo eccezionale sopraggiunto quell’estate e conseguente catastrofica siccità. Niente di meglio che un nero a figurare come il Diavolo, va da sé che Dio, il suo opposto, è bianco. Serve altro? Un vero invito a nozze.
Né le ricerche dello sceriffo e delle forze dell’ordine portano a qualche risultato, nessun bambino corrispondente alla descrizione di Sal risulta mancare all’appello, il ragazzino è letteralmente spuntato dal nulla, sceso rovinosamente giù dal cielo o risalito dagli inferi, che dir si voglia.
Per cui, mancando una struttura sociale di accoglienza di casi simili, Sal viene in pratica adottato dall’intera famiglia di Autopsy Bliss, evidentemente gli unici che hanno conservato non tanto una certa sanità di mente, ma la propria umanità, sempre e comunque malgrado le avversità dell’esistenza.
Diventano quindi in effetti i genitori di Sal Autopsy e sua moglie, diventano suoi fratelli Fielding ed il primogenito di casa, Grand, ed il ragazzino ne è palesemente lieto e felice:
“…Io sono il diavolo. Nessuno mi dice se devo restare o andarmene. Ma è bello essere voluto. …è davvero bello che mi vogliate qui, con voi.”
Non proprio parole di un diavolo, più di un profugo, di un escluso, di un emarginato, di una vittima.
Di un povero diavolo. Chi è davvero Sal? Voltiamo nel paranormale? Affatto.
Perché il Diavolo, per definizione stessa, è incompleto. Non fa le cose per bene, c’è sempre un trucco, un inganno, un’insidia, si usa dire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, è bugiardo e ingannevole, tende continuamente trappole e trabocchetti per indurti a sbagliare e a peccare, è un re del raggiro e della frode, è menzogna e falsità per partito preso.
Sal non è nulla di tutto questo, non fa né pentole né coperchi, dice di essere il diavolo e da questo termine deriva la sua unica azione, divide.
Dio è il più grande spettatore della sofferenza, pone sulla nostra strada il diavolo perché susciti dolore, e in questo modo separa chi resta a guardare senza porre fine al dolore, da chi invece interviene per porre fine a questo.
Dio ha creato il diavolo come mezzo e non come fine, perché separi, divida, affinché Lui, Lui sì non il setaccio ma la Giustizia, possa scindere il buono dal cattivo, l’empio dal mansueto, il meritevole e colui che richiede castigo. Sal divide, la solidarietà dall’egoismo. Il bianco dal nero.
I cuori buoni e i duri di cuore.
La presenza di Sal separa la seccia dal grano, suscita dolore e sgraditi ricordi, e ognuno reagisce come la sua natura realmente lo obbliga da essere.
Questa divisione si evidenzia per il nano Elohim, tanti aspetti in una sola persona di piccola statura, egli è insieme un vecchio rancoroso per la perdita della sua Helen in un naufragio, un affettuoso secondo padre per Fielding, un uomo dall’animo sottilmente razzista nel profondo, il sacerdote di una congrega di fanatici religiosi fuori di testa e ferocemente ostili a Sal.
Sal accentua la divisione finanche nell’animo di Grand, il suo stesso fratello adottivo, che da un lato è il celebrato campione sportivo locale, una sicura promessa del baseball, un ragazzone sano, bello, robusto, l’idolo delle ragazze del paese, dall’altro deve fare i conti con la propria misconosciuta omosessualità, che lo pone all’indice, lo rende un paria ed un infetto, e questo in anni quando ancora era assai ostico e difficile accettare le differenze di orientamento sessuale.
Specialmente in quegli ambienti ancora sottilmente ma ben tenacemente retrivi e conservatori, e per somma di disgrazie nell’anno stesso, il 1984, in cui un micidiale retrovirus inizia a far strage tra certi individui a rischio, scambiato trionfalmente da molti per una sorta di punizione divina per le nefandezze sessuali umani.
Ancora, il diavolo separa l’amore dal peccato, perché anche i diavoli hanno un’anima, e si innamorano. Sal si innamora, ed è ricambiato, di Dresden Delmar, una sorta di Jane Austen, o di Emily Dickinson del luogo, che ha una gamba artificiale.
Il dolore che invade l’animo gentile di Dresden non deriva tanto dalla sua disabilità, ma perché è in ogni senso schiacciata dalla propria madre, che da un lato coltiva una delicata passione per i fiori e le rose in particolare, dall’altra è del tutto fittiziamente inconsapevole di essere l’unica responsabile delle autentiche sofferenze fisiche della propria figlia, chiusa nella sua meschinità e nel suo egoismo.
Sarà Sal a dividere drammaticamente la realtà dalla finzione. A sue spese.
Altro ancora risalta dalla presenza di Sal: oserei dire che grazie al giovane ragazzino di colore si scoprono gli altarini. Quell’estate particolarmente rovente, meteorologicamente caldissima, del 1984 a Breathed, letteralmente spezza il respiro ai suoi abitanti, manda in fiamme quanto di razionalità e umanità è presente nell’animo dei suoi abitanti, carbonizza letteralmente l’infanzia e l’animo del giovane Fielding, che ne sarà marchiato a fuoco a vita.
La presenza vera o presunta del diavolo divide, scinde tra chi resta a guardare la sofferenza altrui, compiacendosene e riconoscendosi in quelle azioni, e chi invece agisce, interviene, si prodiga perché tutto possa accadere diversamente, anche a costo di sbagliare e dannarsi per tutta la vita.
Breathed nell’estate del 1984 è uno scenario di emersione della crudeltà umana, per estensione rappresenta il mondo intero, come già ipotizzato nel 1948 nell’ omonimo romanzo utopico di Orwell. La venuta di Sal non è però la responsabile del caldo, dell’ardore, del fuoco caratterizzante quell’estate che sciolse ogni cosa, in primis le sembianze fittizie di insospettabili.
Sal non scioglie né dissolve, semmai consolida e recupera certi valori: quelli ignifughi.
È ben per questo che esiste il diavolo, come esiste il dubbio anche per il reo confesso, l’avvocato difensore va assicurato anche al diavolo, perchè c’è sempre del buono anche nel male.
Tiffany McDaniel questo ci dice, in estrema sintesi, lei ne sa una più del diavolo.