Lo sguardo medico sulle condotte morali sorge a inizio Ottocento, il caso Victor, bambino selvaggio dell’Aveyron, è paradigmatico. Catturato nei boschi, si diceva allevato dai lupi, probabilmente fu abbandonato dalla famiglia perché autistico. Victor, per molto tempo, fu considerato un bambino-lupo. C’è un film di François Truffaut, del 1970, in cui lo stesso Truffaut interpreta la figura del medico che cerca di rieducare il giovane Victor, ospitandolo per un tempo a casa sua per curarlo. Missione nobile, quanto improba: il limite di Victor era l’incapacità di riconoscere che le cose appartengono a categorie; per lui “libro” è quel libro che ha davanti agli occhi, in quella posizione. Victor rientrerà nell’asilo per sordomuti dal quale il medico intendeva liberarlo e morirà dimenticato, sepolto in una fossa comune.
Nessuno allora si occupò della peculiare condizione (il)logica del pensiero di Victor, filosofo immanentista, muto.
Con la medicina morale, a inizio Ottocento, nasce un movimento, variamente definito nei termini di pedopsichiatria, o psichiatria infantile, che si occupa dell’insorgere di “malattie mentali” tra i bambini. A quell’epoca l’autismo non esisteva e neppure la schizofrenia. Esisteva la demenza o, come la definisce Michel Foucault, la sragione.
Alcuni anni fa, Enrico Valtellina condusse una ricerca che coinvolse una dozzina di persone: filosofi, psicologi, antropologi e medici. La ricerca si svolse presso gli archivi dell’ospedale psichiatrico di San Servolo, a Venezia. L’obiettivo era riconoscere l’autismo quando l’“autismo” non esisteva, quando veniva trattato come “malattia mentale” e manicomializzato. Si sono cercati i tratti autistici nelle cartelle cliniche delle persone internate nei manicomi di Venezia e se ne trovarono numerosi. Le diagnosi variavano: follia morale, idiotismo, lipemania, erotomania, frenesia, ecc. Dipendevano del medico, dall’epoca – dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del secolo scorso, prima che la categoria “autismo” fosse inventata.
Valtellina guidò questa équipe di ricerca che terminò in un libro, curato da lui insieme a Conny Russo, antropologa, e Michele Capararo, medico neurologo. Il titolo di quel rapporto di ricerca è: A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di San Servolo, edito da Mimesis.
Sulla scorta di questa ricerca, Valtellina organizzò il convegno internazionale dal singolare titolo: Tipi umani particolarmente strani, presso l’Università di Bergamo, a cui parteciparono studiosi di diversi paesi del mondo (canadesi, statunitensi, brasiliani, ecc.). Più tardi, Valtellina scrisse la sua ricerca di dottorato pubblicata, sempre da Mimesis, con lo stesso titolo del convegno internazionale. Negli ultimi quindici anni l’autore ha partecipato a vari convegni orientati agli studi critici autistici (critical autism studies) e in queste ultime settimane ha curato un ulteriore libro sul tema dal titolo: L’autismo oltre lo sguardo medico, per Erickson.
Cosa accadde all’autismo dopo la rivoluzione antipsichiatrica degli anni Settanta?
Neuropsichiatri e psicologi continuarono a considerare l’autismo come una patologia, talvolta offrendo come spiegazione una “assenza affettiva” della madre, talvolta questioni mediche come la x fragile, o psico-cognitive, come un difetto nella “teoria della mente”.
Tuttavia, fuori dalla medicina, l’autismo appare come una questione socio-politica, come mostrano diverse sue peripezie.
Innanzitutto mentre negli Stati Uniti l’autismo è stato considerato – indipendentemente dalla discussione sulle sue cause – una schizofrenia a insorgenza infantile, con ritardo mentale, in Germania lo si è visto come una condizione relazionale che nasconde grandi capacità intellettive. Lo documenta la recente polemica suscitata dal libro I bambini di Asperger di Edith Sheffer, recensito e discusso criticamente sulle pagine di Doppiozero proprio da Valtellina. La questione posta è: era Asperger un collaboratore dell’Aktion T4, la famigerata strage dei bambini disabili nell’eugenetica nazista, oppure la diagnosi di valutazione positiva dei bambini autistici aveva lo scopo di salvarli dal massacro?
La seconda questione politica ha valore mediale. Oliver Sacks, nel libro Un antropologo su Marte, intendeva mostrare una persona autistica con grandi potenzialità. La vicenda è quella di Temple Grandin. Ma le cose, in questo caso, gli sfuggirono di mano e, con Temple Grandin, l’autismo divenne un fenomeno mediale pietistico, in cui eroi autistici, nonostante le avversità del mondo e delle istituzioni, reagiscono grazie alla loro intelligenza. Da qui nacquero anche una serie di film, documentari e convegni medici in cui persone autistiche vennero invitate a parlare davanti ai cosiddetti esperti, per spiegare loro come vedevano il mondo e come avrebbero voluto essere curati, un po’ come degli elephant men, o come le isteriche della Salpêtrière.
Il terzo filone politico riguarda il movimento di Neurodiversità, promosso dalla sociologa australiana Judy Singer. Singer e il movimento, ai suoi esordi, proponeva una dimensione identitaria delle persone con sindrome di Asperger. Sulla scorta dei movimenti identitari, nello stile politico anglosassone, gli aspies (termine usato per indicare le persone con sindrome di Asperger come soggetto politico collettivo) rivendicano di essere parte del fenomeno definito biodiversità. Se la biodiversità è una risorsa, lo è anche la neurodiversità in quanto parte della biodiversità. Il movimento Neurodiversità si spinge fino a proporre una diagnosi di neurotipicità, sulla scorta dei metodi di catalogazione delle varie edizioni del DSM. È stata un’epoca di battaglie giuridiche tra genitori di bambini autistici che rivendicavano cure cognitivo-comportamentali e metodi pedagogici rigidi, accusando gli aspies e gli autistici adulti di sottovalutare la patologia. Battaglia che fu svolta anche dinnanzi ai tribunali. Successivamente questo movimento si ramificò in varie branche e diede vita agli studi autistici critici con il motto: “nulla su di noi senza di noi” (nothing about us, without us).
L’autismo oltre lo sguardo medico, primo volume di una serie intitolata Critcal Autism Studies è l’ultima impresa di Enrico Valtellina. Oltre alla presentazione di Roberto Medeghini, che insegnava Pedagogia speciale presso l’Università di Bergamo, con il quale Valtellina ha a lungo collaborato, e dopo la sua introduzione, il libro continua in maniera antologica, con traduzioni di testi pubblicati a partire dagli anni Novanta da Jim Sinclair, che respinge lo sguardo “pietoso” nel mondo neuro-tipico, Harvey Bloom, che parla del “cablaggio stupido” riguardo all’autismo dentro internet, la già menzionata Judy Singer, Steve Silberman, Maja Holmer Nadesan, Patrick McDonagh, Ian Haking, noto per avere scritto pagine indimenticabili sul “soggetto” autistico versus il soggetto “autistico”, Damian Milton, Enrico Caniglia e un saggio collettivo firmato Raffaele Rodogno, Katrin Krause-Jensen e Richard Ashcroft, che presenta un approccio filosofico all’autismo.
Filosofo lui stesso, Valtellina è appassionato di analisi del discorso medico intorno alle disabilità, studioso di autori come Fernand Deligny, Éduard Séguin, Alfred Binet e altri autori che hanno contribuito alla composizione di alcuni quadri diagnostici liminari all’autismo – oligofrenia, quoziente intellettivo, cretinismo, ecc. – oppure, come nel caso di Deligny, hanno inventato metodi di osservazione nuovi e dimenticati.
Il libro è il primo di una serie che intende continuare.