“Per chi è la notte” è il titolo del romanzo d’esordio di Aldo Simeone: ed è un gran bell’esordire, in verità, un ottimo testo, per essere l’opera prima di un nuovo autore.
Un racconto davvero interessante e avvincente, ben scritto, una bella storia ambientata in Garfagnana negli ultimi anni dell’ultimo conflitto mondiale, redatta con semplicità e inconsueta freschezza narrativa, con uno stile giovane e giovanile.
D’altra parte, è anche un iter obbligato, si tratta, infatti, del narrare in prima persona del protagonista, un ragazzino non ancora dodicenne, di cui è resa fedelmente nel libro l’età, e il corrispondente anagrafico sia del suo pensiero istintivo che del suo ragionamento ponderato.
Con estrema sensibilità, attenzione e delicatezza insieme, l’autore riversa in questa sua narrazione i modi di accogliere la realtà, rifletterci e riversarla nei fatti, esattamente come potrebbe farlo un qualsiasi ragazzino di quell’età.
L’età della prepubertà, anni che sono linee, limiti, tempi di confine, di passaggio, perché questa certo non è più l’età della totale incoscienza da bimbo, ma non si è ancora completamente presi dai turbamenti e dalle palpitazioni degli squilibri emozionali dell’adolescenza, e si è ancora ben lontani dal vissuto spassionato dell’adulto fatto.
Francesco ha undici anni, come tale per definizione è ancora incline ai giochi, alla magia, al fantastico, è un ragazzo come tutti i suoi coetanei curioso, sbarazzino, a tratti ancora infantile, eppure già compreso nel suo voler considerare, e magari comprendere in pieno, i fatti degli adulti.
Specialmente in tempi di guerra, in cui è costretto a vivere adeguandosi in fretta.
Ignora per ovvi motivi l’origine, la portata, le effettive dimensioni e conseguenze di tanti eventi, talora volutamente taciute dagli adulti, ma ne intuisce con interezza, per il tramite delle antenne ben dritte della sua sensibilità prepubere, l’importanza e la drammaticità, ammantandola con l’aurea del fantastico e della favolistica insita nelle leggende della tradizione paesana, che rendono i luoghi della sua infanzia un mix di attraente e pauroso ad un tempo.
Il piccolo protagonista è ritratto immerso interamente in un’età tanto difficile quanto ondivaga, altrettanto ostica a rendersi in un testo scritto da un adulto.
L’efficacia narrativa di Simeone si evidenzia in questo: un descrivere non facile, eppure perfettamente riportato, quasi l’autore s’immedesimasse, ma non solo, si calasse con intensità e partecipazione nell’essenza stessa della sua creatura narrativa.
Ce la riporta vera, e non verosimile, rende realisticamente con impressionante fedeltà questa profondità d’indole istituzionale, presente nel principale e in tutti gli altri bambini, o poco più, coinvolti in prima persona nel suo racconto.
Simeone si rintana in un cantuccio nel cuore del giovane protagonista, e senza interferire, in silenzio, si pone in ascolto e ci riporta esclusivamente quello che il ragazzino vede, sente, interpreta, senza nulla aggiungere, non autore ma semplice spettatore, alla pari del suo lettore.
Lo scrittore pisano descrive senza interpretare, mediare o interferire, esattamente come reagisce il suo dodicenne, in che modo interagisce con fatti e cose “da grandi”, crude, cruente e crudeli come sono sempre le cose degli adulti; il tutto permeato dalla magia e dall’inclinazione al fantastico e al favolistico tipico dell’età.
Il piccolo Pacifico, che neanche sa di avere il nome di un oceano, e s’incanta quando glielo spiegano, neppure si chiama per davvero Francesco, è un nome datosi per le convenzioni del tempo, ed è anche detto Frufrù, termine derisorio che sta per finocchio, chiamato così dai suoi coetanei, non per altro che per sfottò e prese per i fondelli; simili soprannomi, nomignoli e appellativi, sono un classico dell’età.
Francesco è nato e vissuto nel paese della Garfagnana, in cui è ambientato il racconto, sulla linea bellica più ostica e difficile negli anni più crudeli e turbolenti, gli ultimi, dell’ultimo conflitto mondiale. I fatti della guerra che lambiscono pesantemente i suoi luoghi natali sono forse ancora fuori dalla sua piena comprensione, ma egli li accoglie completamente, seppur mediati dalla magia residua dai suoi anni infantili, assorbe perfettamente i drammi a cui già gli tocca assistere nella sua breve vita, fatti congruenti con l’epoca e i luoghi del suo divenire.
Aldo Simeone però si addentra ancora oltre nel bosco della sua inventiva artistica: infatti, non sta raccontando e descrivendo solo i guasti sull’animo sensibile di un preadolescente a causa della guerra e della guerriglia partigiana, come, in effetti, ne sono accaduti tanti, purtroppo, sui nostri Appennini sotto la dominazione nazifascista prima e poi, più accentuata, all’indomani dell’armistizio badogliano.
“Per chi è la notte” non è solo il titolo del romanzo d’esordio di Aldo Simeone; è una domanda, che insieme alla ricerca e all’individuazione della risposta giusta rappresenta, in estrema sintesi, tutto il fulcro attorno al quale si snoda il racconto del giovane scrittore pisano.
Perché non è solo, come abbiamo detto, un racconto di guerra, e di guerriglia partigiana, di eccidio, di rappresaglia, di occupazione, una storia di paese chiuso tra monti e boschi fitti di nascondigli e di misteri, un resoconto di vita contadina, di fame…e come la descrive bene la fame, il nostro autore: ”…con la fame così forte che per sentire qualcos’altro i bambini ficcavano le dita nelle prese della corrente per ricevere la scossa”,
Altrettanto bene, ancora oltre, mostra la miseria, il freddo e la strenua e perenne lotta quotidiana sia per la sopravvivenza in sé sia per sfuggire alle persecuzioni dell’occupazione nazista.
L’intenzione dell’autore non è di descrivere però un fatto storico, almeno non solo.
Aldo Simeone fa di più, racconta una storia di crescita, di maturazione, di acquisizione della consapevolezza del vivere.
Il bambino narratore ci spiega la sua crescita, la sua esperienza di vita, il piccolo testimone racconta semplicemente la sua forzata maturazione dallo scapestrato, ingenuo e infantile Frufrù, unico figlio di un soldato presunto disertore o sospetto aderente alla resistenza partigiana, all’uomo Francesco.
Lo fa nell’unico modo possibile: apprendendo il valore delle scelte.
Comprende che crescere significa una cosa, e una soltanto: scegliere.
Significa schierarsi da una parte, e mantenersi coerenti con la scelta intrapresa.
La scelta del Bene, la via che il cuore t’indica come quella giusta, l’unica possibile, e lo dice chiaro, Francesco Pacifico/Aldo Simeone, senza fronzoli, senza se e senza ma:
“Era questa – capii la vera morale di quella storia: fidarsi, affidarsi, voler bene, amare non è trovare protezione negli affetti, ma accettare il rischio.”
Lo impara, Francesco, diviene adulto nell’unico modo possibile, alla sua età, confrontandosi con i coetanei, soprattutto con l’equivalente del miglior amico che tutti noi abbiamo avuto in quegli anni magici.
Nello specifico il bambino, presunto ebreo, Tommaso, dai capelli rossi e dagli occhi verdi; forse il suo alter ego, forse un’immagine onirica, forse una creatura fantastica neanche esistente, forse davvero semplicemente un piccolo profugo clandestino, nascosto a rischio di vita da un vecchio prete nella sua parrocchia, per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei.
Forse Tommaso altro non è che quello che sarebbe potuto divenire Francesco stesso se solo fosse vissuto in altro luogo e in altro tempo, dove i bambini semplicemente giocano nei boschi, sui prati e nei giardini senza timore, vanno a scuola, e imparano a non temere qualcosa solo perché non sanno che cosa sia.
Fatto sta che è il suo unico, grande amico per la pelle, quello cui si è legato per sempre con un giuramento inossidabile, con un rituale mistico e leggendario, come mirabilmente lo descrive Simeone:
“…Se uno sta male, l’altro lo sente; se uno è in pericolo, l’altro lo sa. E non si libera finché non salva l’amico. L’avevo giurato col sangue. Col sangue avrei onorato la promessa.”.
Francesco cresce e matura anche interagendo con altri ragazzi come l’avanguardista Secondo, che vive all’ombra delle gesta eroiche del fratello Primo al fronte.
Secondo proprio amico suo non è, perché Francesco non l’ha scelto, è una pseudo amicizia che in un certo senso gli è stata imposta dai tempi e dalle circostanze, e proprio per questo, paradossalmente, pur non piacendogli, Secondo è l’equivalente di un fratello, e Francesco non si disinteressa pertanto nemmeno della sua sorte, ne è partecipe e sodale per quanto gli riesce.
Pacifico è gradualmente seguito nella sua crescita, allorchè apprende con costanza i fondamenti del vivere anche attraverso i rapporti difficili, che per i tempi e i luoghi devono essere ammantati di riserbo, pudore e riservatezza, con i familiari, con il padre, mai visto eppure presenza tanto ingombrante quanto misteriosa, e con la madre, mai prodiga di manifestazioni fisiche affettive di cui non solo Francesco, ma ambedue ne avrebbero necessità.
Sublimi, struggenti, liriche, commoventi allo spasimo sono le righe dell’ultimo saluto madre-figlio, riportate da Simeone:
“…”Non me ne curai perché tutta la mia attenzione, tutta l’energia, tutta la rabbia e l’amore e il desiderio furono concentrati in un ordine che restò muto: Voltati, mamma! Voltati adesso!”
Trae esperienza di vita Francesco finanche cullandosi nei racconti della nonna, che parlano di “streghi”, che vivono nascosti nel BoscoNero e impediscono a chiunque di uscirne, se non si è in grado di rispondere alla parola d’ordine “Per chi è la notte?”.
Streghi, si badi bene, non streghe; perché l’orrore, in genere, è degli uomini, sono loro che portano elmetti quadrati, armi, lanterne schermate per l’oscuramento. Per loro è la notte.
Il bosco è per chi deve nascondersi, perché non gli è possibile tornare, e ci si nasconde sempre nel buio, quindi mai di giorno.
Il bosco esiste anche, e soprattutto, per nascondere a se stessi fin dove può giungere la miseria umana. Per chi è la notte, dunque? La risposta è ovvia, redatta nero su bianco su un libro sacro.
“Per chi è la notte? “Per chi non può far ritorno, se non può andare di giorno”
La risposta c’è, dunque, ma non è data.
Quando calano le tenebre, nel bosco divampano incendi, sparatorie, rappresaglie, barbarie; imperversano ben altri orrori, “streghi” ben peggiori.
Solo allora il bosco davvero diviene Bosconero, perché a renderlo tale, è il velo nero delle storture degli uomini che cala sul paese.
Scende rapidamente la notte buia, la tenebra scura per tutti indistintamente, certo, ma per qualcuno più oscura, la notte è sempre più buia sugli innocenti che sui belligeranti, questo è un classico delle guerre, perché l’ostilità, il conflitto, la discordia, il dissenso, la crisi, sono le più comuni, stupide e buie, delle scelte degli uomini.
Gli uomini pertanto, loro sì, sono gli unici “streghi” realmente esistenti.
Per lavare il paese da tanto fango, servirebbe affogarlo sott’acqua, letteralmente.
Una notte così, una Bosconero di tal genere, ti costringe a scegliere, e scegliendo cresci, e crescendo cambi. Ritorni all’oceano, magari.
“…io stesso ora mi facevo chiamare Pacifico, sia per semplicità burocratica,sia perché di Francesco non avevo più niente, in tutti i sensi della parola, sia infine perché (Tommaso ne sarebbe stato fiero) lo avevo scelto.”
Un bel libro, in definitiva, una lieta scoperta, un testo che scorre fluido, merito della snellezza artistica che si ottiene solo grazie a un accurato lavoro di ricerca, ad un’appassionata rifinitura in fase di prescrittura, ad un amore infinito per la lettura e la scrittura.
Un metodo di lavoro garanzia di sicuri, lusinghieri successi futuri, per il giovane nuovo scrittore Aldo Simeone.
di Bruno Izzo