La protagonista dell’intervista di oggi è Lorenza Ghinelli, autrice di romanzi thriller come “Il Divoratore” e “La Colpa” (edizioni Newton & Compton). Da poco è arrivato in tutte le librerie il suo ultimo romanzo “Tracce dal silenzio“, che ci racconta in anteprima qui, soddisfacendo alcune piccole curiosità legate ad una storia intrisa di mistero, storia, ingiustizie e protagoniste intrise di carattere.
Ciao Lorenza e benvenuta su 2duerighe. La prima domanda che mi piacerebbe rivolgerti sul tuo ultimo romanzo “Tracce dal silenzio”, riguarda la scelta di una delle protagoniste, Rebecca. A chi ti sei ispirata per creare questo personaggio?
Rebecca è una donna anziana che aveva appena dieci anni il giorno in cui Rimini, nel settembre del 1944, venne liberata dalle truppe greche e neozelandesi. Doveva essere un giorno di speranza e di festa, ma per lei coincise con una perdita immensa e un trauma da cui non si riprenderà mai più. Mi sono ispirata ad alcuni eventi che mi narrò mia nonna, che fu chiamata a vivere la Seconda Guerra Mondiale sulla sua pelle. E anche ad alcune testimonianze che ho avuto il privilegio di ascoltare. Rebecca è un personaggio dolente che ricorda a tutti come non sempre è possibile ritrovare se stessi. Il dolore non ci rende migliori.
L’argomento più sensibile di tutto il romanzo è la perdita dell’udito. La paura e la rabbia della protagonista Nina sono molto forti, ma allo stesso tempo non offuscano la storia in sé. Come sei riuscita a mantenere questo equilibrio di sentimenti così in forte contrasto?
Ricordandomi che la sordità non è solo un deficit fisico, ma è anche una metafora per parlare di altro. In Tracce dal silenzio, Rebecca è sorda al proprio dolore, e come lei altri personaggi. C’è un’incomunicabilità diffusa dovuta all’incapacità di sentire e riconoscere le ragioni dell’altro. Paradossalmente, Nina è la persona che riesce a sentire meglio nonostante la sua sordità. Credo che i deficit offrano al mondo la possibilità di scorgere nuove prospettive, di problematizzare la quotidianità che diamo spesso per scontata. Ciò che noi consideriamo normale, il più delle volte è solo comune.
Nel tuo romanzo si sente molto anche una profonda ingiustizia e numerose difficoltà che devono affrontare le due giovani immigrate Nur e Rasha. Secondo te questa problematica come potrebbe essere risolta nella scuola oggi?
Onestamente penso che sia impossibile che la scuola sia in grado di risolvere una questione che la società stessa non ha ancora trovato il modo di affrontare. Viviamo in un paese che ha ancora troppi retaggi fascisti, la paura del diverso, dello straniero, offusca la ragione di troppe persone. Coltivare l’empatia, il rispetto, la solidarietà è una pratica che dovremmo, come cittadini, imparare ogni giorno e in ogni ambito della nostra società.
Le pagine in cui Rebecca ricorda la Seconda Guerra Mondiale sono estremamente dure, crude, le immagini prendono naturalmente vita davanti agli occhi di chi sta leggendo. Come riesci a creare delle immagini così potenti, tanto che riescono a prendere vita?
Sono chiamata anche io a viverle mentre le scrivo. Ci sono scene che avrei voluto non raccontare, ma la storia le esigeva e sapevo di non potermi chiamare fuori. La violenza non deve mai essere gratuita, ma va raccontata senza filtri. Il male va raccontato senza filtri. Chi scrive ha la responsabilità di non edulcorare la realtà.
Infine, una domanda per chiudere, che riguarda la capacità dei più giovani di sbrogliarsela spesso da soli quanto la capacità degli adulti/genitori di rimanere impantanati nei loro problemi lavorativi e/o di coppia. Pensi che questo sia vero e se sì, fino a che punto?
Credo che non si possa generalizzare. Esistono adulti che pur barcamenandosi a fatica nel loro quotidiano riescono a mantenere un’attenzione preziosa verso le persone a loro vicine, rendendosi punti di riferimento. Nelle storie che, fino a oggi, ho amato raccontare, ho voluto però mostrare cosa significa crescere nella tempesta, da soli, senza bussole e senza modelli